Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 53



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Futuro, clima, energia: parola a Sir David

Intervista al prof. David King

Seguendo la strada tracciata dagli articoli sul cambio del clima comparsi sugli ultimi due numeri, cerchiamo di approfondire alcuni quesiti avvalendoci della voce autorevole di Sir David King, uno dei maggiori esperti in materia a livello mondiale.

Nato in Sudafrica nel 1939, dopo una giovane carriera all’Università di Witwatersrand a Johannesbourg, approdò in Inghliterra all’Imperial College di Londra e poi all’Università della East Anglia, per diventare nel 1974 Brunner Professor di Chimica Fisica all’Università di Liverpool.
Dal 1988 si è spostato a Cambridge dove ha ricoperto diversi incarichi di rilievo tra cui Direttore del Dipartimento di Chimica e Master del Downing College. E’ tuttora professore di Chimica Fisica e Membro del Queens College dell’Università di Cambridge dove lavora il suo principale gruppo di ricerca, e dirige in parallelo la Smith School of Enterprise and the Environment presso l’Università di Oxford.
Proprio ad Oxford ha in progetto di aprire nei prossimi mesi una scuola interdisciplinare sulle questioni legate ai cambiamenti climatici, di cui si è molto occupato in questi ultimi anni.
E’ stato dall’ottobre 2000 al dicembre 2007 Chief Scientific Adviser del Governo Britannico e direttore dell’Ufficio Governativo Scienza e Tecnologia, ovvero la massima autorità scientifica inglese, punto di riferimento per il Primo Ministro e il Parlamento.
Si è dedicato con particolare interesse e dedizione al global warming sostenendo che il cambio del clima è la più grande sfida davanti a cui si trova l’umanità nel XXI secolo, un problema ben più serio anche della minaccia del terrorismo. In febbraio ha pubblicato in merito “The Hot Topic” (per Bloomsbury, vedi www.thehottopic.net), libro che è già considerato un saldo punto di riferimento.
Ha supportato con forza il lavoro dell’IPCC (International Pannel on Climate Change) e criticato duramente il governo degli Stati Uniti per la sua politica non attenta al surriscaldamento globale. Al suo attivo ha quasi 500 pubblicazioni scientifiche e un gran numero di premi e lauree ad honorem, l’ultima delle quali gli è stata assegnata proprio in Italia dall’Università di Torino nel mese di maggio 2007. Recentemente è stato anche ospite della trasmissione televisiva “Che tempo che fa?” di Fabio Fazio.

Lo abbiamo incontrato a Torino nel corso di un ciclo di Conferenze sul Clima organizzate dal Museo Regionale di Scienze Naturali, avendo modo di apprezzare non solo la sua grande preparazione, prontezza e vivace intelligenza, ma anche la sua disponibilità e squisita gentilezza, testimoniate dalla calma e correttezza con cui ha risposto a tutti coloro che gli hanno rivolto domande, dedicando uguale tempo ed attenzione agli studenti nei corridoi, ai colleghi dell’università, ai politici di turno, ai giornalisti in sala stampa ed al pubblico in genere. Ci teniamo a ringraziarlo per queste doti quanto mai rare e uniche nel mondo di oggi e nel nostro paese, dove ogni piccolo uomo che riceva un riconoscimento pubblico è pronto a farsi presuntuosa e arrogante soubrette televisiva.

Partiamo dall’attualità: l’incontro di Bali ha dato la luce ad un nuovo documento di riferimento che presenta aspetti positivi e negativi. Da un lato infatti tutti i paesi, e non solo quelli industrializzati come nel protocollo di Kyoto, sono ora coinvolti nella sfida ad arginare il cambio del clima, ed è stata riconosciuta l’impellenza e la realtà del problema ed il lavoro dell’IPCC. Dall’altro abbiamo una manifesta posizione di chiusura da parte degli Stati Uniti, ed anche di paesi come il Giappone e la Russia, che hanno determinato un rallentamento dei lavori ed una edulcorazione dei contenuti del documento. Vorrei quindi chiedere la sua opinione in merito al “dopo Kyoto” ed al futuro che ci porterà fino all’atteso appuntamento di Copenhagen a fine 2009.
Penso che la prima cosa da dire rispetto a Bali sia, ancora una volta, il grande disappunto degli Stati Uniti non solo di non possedere la leadership della situazione, ma di essere ostacolati nei loro propositi e di non avere la forza di bloccare il consenso altrui. Allo stesso tempo gli Usa hanno sicuramente rallentato ed in parte edulcorato i punti della Bali roadmap, tuttavia alla fine hanno approvato il documento, e ritengo questa possa considerarsi una vittoria.
Finché gli Stati Uniti hanno rivestito la posizione di leader, tutto è stato molto difficile: non penso quindi che si debba essere troppo pessimisti su quanto è accaduto a Bali. Non si deve dimenticare, poi, che le elezioni hanno cambiato radicalmente le cose in Australia (NdR il 24 novembre 2007 dopo 4 mandati del partito liberale di centro destra, ha vinto con un certo margine dal candidato laburista di centro-sinistra). Penso che qualcosa di analogo succederà nelle prossime elezioni presidenziali americane: muterà completamente l’atteggiamento in materia di cambio del clima. Quello che abbiamo ora da fare è prepararci al meglio a Copenhagen, tenendo presente che le elezioni presidenziali degli Usa arriveranno prima di allora e che chiunque tra i candidati vinca, sia Hilary Clinton, MacCain o Obama, porterà ad un considerevole passo avanti nella posizione dell’America, che rimane comunque molto importante.
Non dobbiamo anche dimenticare che nel 1997, l’anno cruciale per Kyoto, fu rilevante il contributo di pensiero e di energie profuse da Al Gore, ma nonostante ciò nel periodo dell’amministrazione Clinton, quando egli era vicepresidente, non ci furono sostanziali progressi nella posizione degli Stati Uniti. Quindi il problema è interno al meccanismo politico americano, tra senato e congresso, che annualmente possono cambiare e mettere in discussione il consenso. Al momento io sono piuttosto ottimista sul fatto che vi sia un buon consenso sulla necessità di fronteggiare il surriscaldamento globale.
Ovviamente dobbiamo guardare con attenzione anche a Cina e India, chiedendoci qual è il meccanismo per coinvolgere tali nazioni. Innanzitutto il governo cinese è molto interessato al tema del cambio del clima, anche e soprattutto perché ne teme le conseguenze per lo sviluppo della sua economia. Per esempio Shangai è città ad altissimo rischio inondazioni e i cinesi sanno bene che per proteggere parte del loro territorio devono contribuire a un accordo internazionale per contenere il surriscaldamento. L’India è sicuramente una delle nazioni più immobili e meno sensibili, tuttavia anche in questo paese esistono delle voci potenti fuori dal coro che spingono per fronteggiare il cambio del clima, e ciò è molto significativo se consideriamo il livello di povertà in cui versa la nazione.
Il Giappone assume ora la presidenza del G8, e credo porterà avanti a fondo il programma che prevede una fitta agenda in materia di cambio del clima, invitando tutti i capi di governo di Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa. Spero quindi che i prossimi incontri del G8 portino a ulteriori progressi.
Ma è sicuro che, finché non cambia l’atteggiamento degli Stati Uniti, e quello della Russia che non è molto migliore, non sarà facile lavorare.
Copenhagen è cruciale, anche considerando che la finestra temporale è molto breve tra l’arrivo del nuovo presidente statunitense nel gennaio 2009 e la data prevista per l’incontro a fine 2009. E’ lì che si giocherà parte del nostro futuro.

La mia seconda domanda riguarda l’Europa. Da Kyoto a Bali credo che la posizione del “Vecchio Continente” in materia di cambiamenti climatici sia diventata sempre più forte e unita, tanto forse da stupire il resto del mondo. Dopo il “boom” del terrorismo che ha segnato un epoca critica e buia per la politica internazionale, possiamo forse immaginare che i problemi legati al clima siano occasione per una nuova era della politica internazionale? E vista la posizione di leadership riscontrata a Bali, quale può essere in tale contesto il ruolo dell’Europa?
Questa è una questione cruciale. Ritengo che noi popoli della terra dobbiamo unirci davvero per fronteggiare il problema del surriscaldamento globale. Per la prima volta siamo messi davanti all’esigenza impellente di dimostrare che siamo in grado di gestire problemi globali. E in questo senso questa è una nuova era in cui è richiesta una maggiore collaborazione internazionale.
Bisogna capire cosa questo significhi. Penso che la situazione offra una grande opportunità, purché una serie di cose cambino radicalmente.
Se consideriamo il grande impulso del dopo guerra che ha portato a muoversi insieme a livello internazionale per evitare future guerre mondiali e di conseguenza a creare le Nazioni Unite, non ci resta che constatare che oggi questo slancio si è quasi completamente esaurito. Gli Stati Uniti non sembrano più impegnati in uno sforzo internazionale, come ha dimostrato in particolare l’atteggiamento dell’amministrazione Bush.
La situazione richiede invece di rafforzare cooperazione e rapporti in tutto il globo. Non sono sicuro di come questo slancio possa essere nuovamente costruito. Una delle ragioni della mia incertezza in merito agli Usa è il fatto che tutti e tre i candidati alla Casa Bianca, come ho detto sono molto chiari in merito al cambio del clima, ma la loro campagna è molto negativa verso il resto del pianeta. Mi ricorda la campagna di Mitterrand del 1982, quando la Francia tendeva a richiudersi in se stessa lasciando fuori il resto del mondo. I tre candidati, forse MacCain un po’ meno degli altri, parlano di istituire barriere commerciali, di arginare l’immigrazione, etc… una tendenza per certi versi contraria a quanto stiamo cercando di ricreare.
In ogni caso io sono ottimista, penso che l’umanità possa riuscire in questa sfida.
Abbiamo necessità non solo di gestire il cambio del clima, ma di gestire in modo sostenibile un intero pianeta che ospita diversi miliardi di persone.
Questo richiede un grande lavoro, dobbiamo alimentare un maggior movimento di acqua, cibo, energia, dobbiamo “equalizzare” l’accessibilità alle risorse: è la grande sfida davanti a cui ci troviamo oggi. Le nostre economie di consumo sono in grado di produrre un tale risultato? La risposta sta nei fatti. Finora sono state così “forti” e hanno prodotto un tale livello di benessere da farci consumare non più quello che è necessario, ma quello che non lo è. E ciò si ripercuote in modo negativo sull’utilizzo delle risorse del pianeta.
Ciò che è richiesto in primis è quindi un profondo cambiamento culturale.

Vorrei chiederle se può chiarirci alcuni punti in merito alla valutazione dei costi futuri dovuti al surriscaldamento dell’atmosfera del pianeta. Uno studio condotto di recente da Sir Nicholas Stern nel suo paese, parla di cifre astronomiche, dell’ordine di 4000 miliardi di sterline, come valutazione del prezzo della nostra “non azione”. Come è possibile valutare l’entità di questi costi? E come è collegata questa valutazione con la previsione dei disastri connessi al cambiamento del clima?
Lo studio condotto da Stern utilizza modelli macro-economici classici, per cui i costi di in uno scenario “business as usual” (NdR lo scenario che non vede alcuna modificazione delle nostre attività per contenere le emissioni di CO2) sono tutti calcolati utilizzando modelli di tipo lineare.
Penso sinceramente sia il meglio che si possa fare con modelli di questo tipo, per cui la valutazione cui lei fa riferimento è in tal senso da tenere in grande considerazione. E l’entità valutata è impressionante.
Bisogna però avere il coraggio di andare anche oltre. I modelli classici, infatti, sono molto semplici rispetto al complesso modo di svilupparsi degli scenari economici. Per esempio non possono assolutamente tenere in conto fenomeni come il periodo di crisi bancaria mondiale iniziata qualche mese fa, così come non possono prevedere i disastri naturali, perché non hanno al loro interno feedback non lineari, mentre fenomeni di questo tipo dipendono proprio dai termini non lineari di un modello.
Per fare un altro esempio di ciò che non vedo incluso in valutazioni come quella di Stern, ci si può chiedere che cosa accadrà con l’innalzamento del livello del mare.
Città come Venezia sono a forte rischio di scomparire, e le grandi metropoli costiere non sono poche nel mondo: con un modello lineare possiamo calcolare la perdita diretta di valore che ne consegue. In uno scenario di modello non lineare, l’innalzamento dei mari è un fenomeno che porta ad una situazione in cui tutti i paesi sono a rischio. Si può infatti raggiungere un punto critico in cui le persone delle aree maggiormente colpite, come il Bangladesh, decideranno di spostarsi, di scappare, e a questo punto il problema sarà dove andranno, cosa faranno in questo pianeta la cui popolazione è in continua crescita?
Questo è il genere di conseguenze che gli attuali modelli economici non tengono in conto, per cui l’entità del danno può essere decisamente maggiore.

In ogni caso è molto interessante avere alcune indicazioni dei costi, per esempio delle misure di abbattimento della CO2. Mi riferisco in particolare allo studio condotto dalla Mac Kinsey Quarterly, cui lei spesso nelle sue conferenze fa riferimento. Mi ha colpito perché fornisce indicazioni ed elementi molto concreti, per esempio, a decisori e politici per orientarsi. Un aspetto che ho trovato di particolare interesse, lavorando nel campo dell’ecologia e delle aree protette, è il grande contributo a livello mondiale che potrebbe fornire una buona gestione forestale.
Come far partire un processo virtuoso in tal senso? Pensa sia possibile utilizzare questi modelli a livello locale per esempio in un’area protetta per avere indicazioni concrete su come agire per dare un contributo al contenimento delle emissioni serra?
Il modello della Mac Kinsey è molto “seducente” perché studia il costo dell’abbattimento dei gas serra, prendendo in considerazione misura per misura, considerandone le possibilità planetarie e ponendosi l’obiettivo di arrivare ad abbattere 26 GtCO2e (NdR ovvero la quota necessaria secondo lo scenario di stabilizzazione a 450 ppm della CO2 in atmosfera, quello più ottimistico).
Penso sia un modo davvero brillante di mostrare al mondo cosa può e deve essere fatto. Nel grafico costruito dallo studio (vedi fig.2) differenti misure di contenimento si pongono al di sotto della linea di costo zero: tutti questi provvedimenti sono attuabili già oggi nel nostro sistema e risultano favorevoli in termini di economia e di mercato. Dobbiamo guardare ad essi con molta attenzione, non limitandoci a constatare che esistono, ma approfondendo il perché queste misure si trovino lì. Solo così possiamo capire le ragioni per cui tali provvedimenti non sono già in atto ed indirizzare le nostre azioni verso una loro realizzazione immediata.
Poi arriviamo alla fascia di misure con un costo positivo, per esempio quelle che riguardano il contenimento della deforestazione, che lei ha citato.
Ma perché tutto questo dovrebbe accadere, se neanche le misure a costo “negativo” vengono attuate? E’ questo il punto centrale della sua domanda, e la mia riposta è che non possiamo lasciare tutto ai meccanismi macro-economici, ma dobbiamo guardare alle micro-economie per mettere in moto un tale processo virtuoso.
Ho cercato di coinvolgere il Governo Britannico a questo livello micro-economico, cosa non semplice soprattutto perché gli economisti sostengono che il solo meccanismo di regolazione dei costi sarà sufficiente a risolvere la questione, ma è palese che la cosa non funzioni.
Per questo è così importante e cruciale introdurre tutte le misure e muovere tutte le leve adeguate (investimenti, incentivi, regolamenti, vincoli, etc…) per creare micro-economie sostenibili. E’ uno degli obiettivi del Comitato per il Cambio del Clima che il Governo Britannico ha istituito di recente.
Se consideriamo la componente forestale, l’importanza di un occhio attento al “locale” è evidente: bisogna analizzare a fondo la situazione in ogni singola area per capire come intervenire in modo adeguato, caso per caso.
Altro fattore da notare è che molte misure che hanno costo contenuto, ma comunque positivo, riguardano principalmente azioni nei paesi in via di sviluppo. E’ necessario quindi favorire il trasferimento di risorse economiche dai nostri paesi verso quelli in via di sviluppo. Ritengo questo sia il problema maggiore perché l’entità della somma da trasferire è davvero molto grande.
Per esempio, per fermare la deforestazione il modo più diretto è quello di andare dai tagliatori di legna e chiedere: “quanto riuscite a guadagnare in un anno con la deforestazione?” e poi dare loro la stessa cifra perché si fermino.
Questa è una maniera molto semplice, ma pragmatica di guardare alle cose.
Il Presidente Lula (NdR Luiz Inácio Lula da Silva, attuale presidente del Brasile, eletto a fine 2002 e riconfermato nell’ottobre 2006) ritiene si debbano trovare valori economici per evitare la deforestazione. In pratica, se manteniamo la foresta, come possiamo riconoscere il suo valore? Ad esempio, considerando il fiume che scorre nella selva amazzonica e poi va ad irrigare i campi agricoli, si può constatare come le sue acque arricchite proprio dalla presenza delle piante secolari siano il miglior fertilizzante per le terre coltivate che raggiungono in seguito. Se la foresta viene tagliata, i coltivatori, come molti casi concreti dimostrano, sono costretti a ricorrere ad un utilizzo cospicuo di fertilizzanti, il che rappresenta per loro un costo non indifferente. Per questo il presidente Lula sostiene che le persone che vivono nella foresta siano autorizzate a chiedere un pagamento per le acque fertilizzanti: un valore economico concreto che va a favore del mantenimento della foresta stessa.
Tutti questi sistemi sono complessi, molti sono i fattori da considerare, e ogni situazione va analizzata a fondo singolarmente. Il lavoro per trovare soluzioni equilibrate non è semplice, e richiederà decine di anni di studio e calibrazione per essere messo a punto, ma risulta di primaria importanza.

Vorrei ancora porle alcune domande sul settore energia. Posto che il risparmio energetico è forse la prima misura da attuare, anche il settore di produzione dell’energia vede oggi molte alternative interessanti di cui spesso non è facile capire le reali potenzialità.
Il solare, per esempio, da un lato, sembra fonte primaria, diffusa su tutto il territorio e potenzialmente molto promettente, come dimostra il lavoro di Nathan Lewis (cfr. Parchi n. 52), dall’altro, pare ancora una tecnologia troppo costosa per rappresentare una soluzione, come dimostra il fatto che non compaia tra le misure analizzate dallo studio Mac Kinsey (vedi fig.2). Qual è il suo parere?
Riconosciuta l’importanza del risparmio energetico, il sole rappresenta una risorsa molto interessante. Le principali strategie per il suo utilizzo sono tre e la cosa più sensata è rispondere analizzandole separatamente.
La prima riguarda la produzione diretta di calore utilizzando e concentrando la radiazione solare, per esempio per scaldare l’acqua. Questa tecnologia è molto efficiente. Anche in Inghilterra, per gran parte dell’anno, tutta una famiglia può fare la doccia calda ogni giorno senza utilizzare minimamente l’energia elettrica.
Non conosco perfettamente la situazione, ma ho l’impressione che in Italia questa tecnologia non sia così utilizzata come potrebbe. In Grecia, per esempio, il fototermico si è diffuso molto rapidamente perché risulta davvero conveniente, e decisamente meno costoso rispetto alla convenzionale soluzione elettrica. Per questo penso che dovrebbe comparire tra le misure considerate nello studio della Mac Kinsey.
In secondo luogo abbiamo la produzione diretta di energia con impianti di specchi di grande estensione territoriale che concentrano la radiazione solare. Il principio di funzionamento si basa sullo sfruttare lo sbalzo termico di un fluido, solitamente un olio riscaldato ad alte temperature concentrando i raggi del sole, per produrre energia elettrica con sistemi convenzionali (NdR In Italia l’Enea sta sviluppando lo studio dell’impianto Archimede che di basa su tale tecnologia e dovrebbe essere attivo per il 2010). Un sistema che al momento pare costoso, ma è troppo presto per pronunciarsi perché siamo all’inizio del suo sviluppo.
In terzo luogo abbiamo il fotovoltaico. Sembra anch’esso caro, ma io credo lo sia perché tutta la sua tecnologia gravita intorno al silicio.
Un materiale che risulta poco “attraente” per gli architetti – anche a me non piace – e incredibilmente caro da lavorare, dal momento che i film per le celle fotovoltaiche vanno prodotti sotto vuoto. I fisici non hanno ancora lavorato a fondo sull’utilizzo in tal senso di plastica e ceramica, si sono concentrati su una tecnologia già conosciuta e quindi meno cara perché non ha richiesto uno specifico sforzo di ricerca.
Ciò di cui abbiamo bisogno ora è darsi da fare su plastica e ceramica. Infatti, anche se la loro resa sembra non sia molto migliore di quella del silicio, il costo di produzione dei pannelli sarà molto più contenuto perché questi materiali non richiedono di essere lavorati sotto vuoto. Sono sicuro, inoltre, che ingegneri e designer italiani daranno un contributo fondamentale perché, come hanno sempre fatto, troveranno un design efficace e bello per i futuri pannelli che, in plastica o ceramica, potranno essere plasmati a piacere. Una prospettiva molto importante per il fotovoltaico, dal momento che in Gran Bretagna, e penso accada in tutti i paesi europei, si stanno definendo regolamenti per le costruzioni: entro il 2017 tutti i palazzi dovranno essere autonomi sul piano di produzione e consumo di calore ed energia.
In sintesi, quindi, le soluzioni verranno anche dal sole, ma oggi l’unica tecnologia sviluppata e competitiva è quella fototermica. Dobbiamo in tal senso guardare anche alle altre tecnologie di produzione energetica rinnovabile: sono ampi i margini di miglioramento. Forse l’unica che inizia ad essere sfruttata realmente è quella eolica.
Per esempio, in Inghilterra, per il riscaldamento degli edifici, la risorsa più immediata sarà quella geotermica, ancora sottovalutata. Bisogna ragionare in termini di “micro-generazione” diversificata e produzione combinata di calore ed energia. E’ evidente che siamo indietro su questa strada, basta considerare grandi città come Stoccolma che funzionano completamente grazie a questa filosofia.
Dobbiamo poi anche considerare la produzione su larga scala di energia, indispensabile per alcune attività di un paese.

Muoviamoci appunto nella direzione delle produzioni di vasta scala, per addentrarci in un settore che sembra tornato molto in voga negli ultimi tempi, il nucleare. In realtà mi sembrano molti i punti a suo sfavore.
Da un lato il problema della sicurezza che, nonostante le ottime garanzie tecniche degli impianti di nuova generazione, desta perplessità e dubbi, soprattutto in un periodo di intensificazione degli eventi naturali catastrofici.
In secondo luogo la produzione centralizzata di una grande quantità di energia pone i classici problemi di trasporto e distribuzione con relative dispersioni e impatti territoriali. Non ultimo poi il fatto che la produzione energetica non è modulabile: non possiamo accendere e spegnere le centrali a piacimento.
Qual è la sua posizione?
Per diverse ragioni io sono attualmente molto favorevole a una nuova generazione di centrali nucleari in Gran Bretagna.
Utilizzando da molti anni la tecnica del “reprocessing” (NdR È un processo iterabile decine di volte che separa i componenti del combustibile già utilizzato in una centrale, rendendolo in buona parte disponibile per una nuova combustione), abbiamo accumulato uno stock di uranio e plutonio così vasto nel nostro paese che, continuando con il “reprocessing”, avremmo la possibilità di produrre il 40% del nostro fabbisogno energetico per 100 anni. Da un lato, quindi, abbiamo già tutto il carburante in casa e non dovremo più importare o estrarre neppure un grammo di uranio, dall’altro non possiamo certo trascurare o abbandonare questi stock.
Le scelte possibili in pratica sono solo due: trattarli come carburante oppure trattarli come scorie. La differenza è che nel primo caso rappresentano una risorsa del valore di diversi miliardi di sterline, mentre nel secondo caso un costo di alcune decine di miliardi di sterline. Inoltre il “reprocessing” non è altro che la parte finale del ciclo più efficace per trattare le scorie di uranio e plutonio, per cui sarebbe assurdo portare a compimento tale fase senza poi riutilizzare il combustibile residuo per produrre ancora energia elettrica. Per questo motivo ritengo che, vista la situazione attuale, in Gran Bretagna non vi siano alternative, tenuto conto anche del fatto che il combustibile praticamente non ci costa nulla.
Veniamo ora alla sua osservazione sul fatto che non si possano spegnere le centrali. Tenuto conto che nel nostro paese la domanda totale massima è intorno a 72 GWatt d’inverno (e abbiamo una capacità intorno a 76 GWatt per fronteggiare le emergenze dovute, per esempio, ad inverni particolarmente rigidi), io ritengo che l’optimum per la produzione di energia nucleare sia una quota intorno a 25 GWatt che rappresenta la “baseline”, ovvero quella quantità di energia “minima” di cui necessitiamo sempre. A questa si aggiungerà, a seconda delle esigenze, l’energia prodotta da altre fonti. L’idea è che funzionino sempre in continuo eolico e nucleare, e tutte le altre tecnologie, a partire dal gas, vengano utilizzate per integrare quando necessario.
Una tale strategia minimizza consumi e costi.
Passiamo ora alla questione sicurezza, ed in particolare allo smaltimento delle scorie ed all’individuazione dei siti per le centrali. Per queste scelte innanzitutto chiedete a un sismologo. E’ ovvio che non bisogna collocarsi in un luogo dove avverrà uno tsunami, ma siamo in grado di individuare delle aree idonee. Per la Gran Bretagna il luogo più adatto è la Cumbria (NdR contea del nord-ovest dell'Inghilterra, situata a sud-est di NewCastle, che ospita tra l’altro il Lake District National Park), dove a oggi si trovano tutti gli stock inglesi di plutonio e uranio e tutte le scorie. Attualmente lo smaltimento di queste ultime non presenta problemi particolari: si perfora il granito ad una profondità adeguata e si depositano.
Ciò che è critico è l’accettazione pubblica di questi processi. Per esempio, il movimento di Greenpeace, che io ammiro molto, è nato proprio allo scopo di combattere il nucleare. In primis, schierandosi contro il suo utilizzo militare, ma anche contro il suo utilizzo civile per la produzione energetica, ritenendo che sia sempre molto pericoloso. E’ ovvio quindi che combatteranno sempre contro il nucleare.
Tuttavia se si guarda al numero di incidenti e fatalità accadute per kwh, il nucleare è di gran lunga l’ultimo in classifica rispetto a tutte le altre tecnologie di produzione. Basti pensare all’idroelettrico o al carbone che sono ai primi. Credo che talvolta le persone perdano questa percezione.

Un’ultima domanda che riguarda il livello locale. Quando affrontiamo il cambio del clima, ci troviamo davanti a una questione gigantesca dal punto di vista economico e politico, ma anche da quello psicologico. Tutto sembra enorme, scoraggiante, al di là delle nostre forze e delle nostre possibilità.
Cosa può fare allora una regione, una provincia, un’area protetta per affrontare questo problema? E come possiamo contribuire noi come individui?
Prendiamo, per esempio,il caso di Londra e della tariffazione per la congestione del traffico (“congestion charges”). La molla che fece scattare questo provedimento è stato il raggiungimento di una situzione così critica da rendere quasi impossibile spostarsi in auto da un punto all’altro della città. Ora le cose sono cambiate, grazie all’adozione delle “congestion charges” (tariffe “di transito”) per le auto, con cui si è scelto di incoraggiare l’utilizzo di veicoli a bassa emissione di CO2. La tariffa, infatti, è nulla per le auto che producono meno di 100 gr di CO2 per chilometro percorso. Nel caso in cui le emissioni superino invece i 250 gr/km il conducente paga ben 27 sterline al giorno per guidare a Londra.
Questo esempio dimostra come si possano creare incentivi e disincentivi a livello locale per gestire ed orientare problemi: una strategia valida in molti ambiti diversi.
Considerando sempre il clima in città, un buon “urban design” sarà in grado di integrare il nuovo sviluppo urbano con una riduzione delle esigenze di spostamento su strada, favorendo l’utilizzo del trasporto pubblico, ma soprattutto migliorando le condizioni di percorribilità a piedi e in bicicletta per raggiungere il posto di lavoro. E’ fondamentale creare un ambiente in cui sia bello, seducente e sicuro camminare e andare in bici, ovvero utilizzare le nostre energie personali per muoverci e non altre fonti di energia.
C’è un ampio range di cose che ognuno di noi può fare per ottimizzare il consumo dell’energia, a partire dalla scelta dell’illuminazione domestica al miglioramento di alcune abitudini e comportamenti. L’elenco potrebbe essere molto lungo, ma alla base di tutte queste azioni è richiesto un cambiamento culturale.
Lo “status” dell’individuo fino ad oggi è stato misurato attraverso la possibilità di consumare in modo visibile molta energia: si guida una grande auto potente, non perché si trasportano tanti passeggeri, ma perché si vuole essere ammirati su quel veicolo. Credo si debba ribaltare questa visione e iniziare ad ammirare le persone che sono in grado di risparmiare più energia: per esempio coloro che vanno a piedi e in bicicletta.
Di recente una domanda simile alla sua mi è stata posta da un ragazza, e la mia risposta in Italia mi avrebbe fatto correre qualche rischio… la ragazza mi chiese: “cosa posso fare io per il cambio del clima?” e la mia risposta fu “la smetta di ammirare i giovani che girano in Ferrari.”
E’ evidente che io non ho nulla in particolare contro la Ferrari, ma ritengo che questa piccola provocazione renda bene l’idea.

Giulio Caresio