Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 59


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DOSSIER
Parchi tra venti di tempesta e desiderio di nuova primavera

La crisi non solo finanziaria dei parchi nazionali

La pesante crisi finanziaria prospettata per il 2011 per i parchi nazionali e le riserve marine, alla quale fanno il controcanto misure simili di molte Regioni, non è che la punta dell'iceberg di un notevole malessere della politica delle aree protette nel nostro paese che probabilmente ha ragioni profonde che vengono da lontano.Anche se le questioni del contributo ordinario verranno superate per l'impegno del Ministro Prestigiacomo, cosa che ci auguriamo vivamente, molte altre rimarranno aperte.
L'ipotesi del Governo e della maggioranza, ammesso che non si vada a una crisi politica, di rinnovare la legge quadro sulle aree protette del 1991 ed emendata nel 1998, viene proposta ripetutamente e da più parti in assenza di qualunque informazione su quale sia il progetto che si intende percorrere. Questa stessa ipotesi, che non viene respinta in partenza e pregiudizialmente da Federparchi, e neanche dalla LIPU-BirdLife Italia che però preferirebbe una piena attuazione della 394 prima di pensare di cambiarla, sarebbe però inaccoglibile nel momento in cui il Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare non chiarisca innanzitutto quali sono le sue critiche al sistema attuale, e soprattutto le idee e ipotesi operative sulle prospettive di modifica delle norme, alla luce di un ampio e generale progetto di riforma dell'organizzazione del sistema nazionale delle aree protette che poggi su pilastri chiari.
Si dice che il problema centrale sia la burocratizzazione degli enti parco nazionali e la loro incapacità di attivare finanziamenti propri.
Ma su quali analisi sta lavorando la commissione che si dice da più parti - da ultimo nel corso dell'iniziativa di Federparchi alla quale ha partecipato anche il Ministro Prestigiacomo - stia riscrivendo la 394?
Su quali dati?
Su quale conoscenza dei reali problemi delle aree protette, date le scarse occasioni di confronto? Alla recente riunione di Roma l'On. Prestigiacomo sembra avere investito Federparchi di un ruolo di "raccordo" tra aree protette e suo dicastero, ma per quanto personalmente sia convinto dell'importanza di Federparchi nessuno ci può convincere che questo possa vicariare un diretto rapporto di confronto e di indirizzo tra il Ministero e gli Enti vigilati.
Questa mancanza di comunicazione, che potrebbe sembrare mancanza di interesse, per le vicende delle aree protette porta al rischio di partorire mostri come successo con la recente ipotesi di decreto di trasferimento delle Riserve Naturali dello Stato agli Enti Parco dagli Uffici Territoriali della Biodiversità, già Gestione Ex-ASFD, e già ASFD (Azienda di Stato Foreste Demaniali).
Questa struttura dello Stato in teoria è stata sciolta dal DPR 616/77 e in pratica dopo 33 anni è ancora attiva per conservare le proprie competenze a discapito del coinvolgimento della società locale e nazionale nella gestione dei parchi nazionali. La bozza di decreto elaborata nel buio delle stanze ministeriali finge di attuare la legge 394/91 (dopo diciannove anni!) ma in pratica lascia tutto esattamente com'è, aggiungendo un pesante onere finanziario agli enti parco nel momento in cui prevede che le riserve e i beni demaniali inclusi siano gestiti - ancora, nonostante tutto - sempre dal CFS, ma con a suo carico solo gli stipendi del personale, spostando a carico degli enti tutte le altre spese!
Oltre al danno la beffa.
Sia ben chiaro che se non ci fossero precise ragioni di ordine logico e gestionale non avremmo niente in contrario a lasciare la gestione delle RNS e dei beni demaniali forestali di interesse nazionale al CFS, che svolge una benemerita azione di tutela.
Del CFS la LIPU ha difeso molte volte negli anni, insieme ad altre associazioni ambientaliste, le prerogative, il ruolo e l'unitarietà.
Ricordo al proposito nella prima metà degli anni '90 una serie di iniziative in difesa del CFS contro la regionalizzazione alla quale partecipai personalmente come funzionario della LIPU e alle quali era presente il dott. Alfonso Alessandrini, vero "teorico" del ruolo del Corpo. O quelle, in anni più recenti e sotto governi di segno opposto, in favore della legge di riordino, in coordinamento con l'attuale Capo del Corpo, l'Ing. Cesare Patrone. Ma le ragioni logiche ci sono, e sono nella stessa legge 394/91.
La scelta del trasferimento delle riserve, già difficile allora, fu imposta dalla razionalizzazione della gestione dei parchi nazionali: non aveva - e non ha - alcun senso prevedere due soggetti con funzioni così sovrapposte come quelle degli Enti Parco e quelle dell'allora Gestione ex-ASFD, e oggi degli UTB. Questo si che sarebbe un grave spreco di risorse pubbliche nell'attuale situazione del paese, oltre che un minare alla base ogni possibilità di gestione efficace ed efficiente. Un burocratizzare, davvero, l'azione degli Enti Parco che già devono trovare un difficile equilibrio con l'esistenza dei CTA - altra struttura del CFS - che Alessandrini volle imporre come funzione di sorveglianza dei parchi nazionali, invece che utilizzare i guardiaparco la cui esperienza al PNGP e PNA (oggi PNALM) era sembrata tanto positiva e come le associazioni ambientaliste chiedevano, proprio ad equilibrare l'uscita del Corpo dalla gestione, che era la scelta forte della 394. Non perché il CFS avesse fatto male nella gestione delle RNS e dei parchi nazionali dello Stelvio, del Circeo e della Calabria, ma perché il modello di gestione attuato utilizzando un corpo di polizia invece che enti partecipati da amministrazioni locali, soggetti scientifici, associazioni ambientaliste e ministeri sembrava - e continua a sembrare - non più idoneo all'evoluzione della società italiana. Ed anche a livello internazionale questa era - ed è - la tendenza più forte e "democratica".
La soluzione prospettata nella bozza di decreto inviata ai parchi nazionali a metà novembre scorso sembra anche del tutto illogica dal punto di vista dell'efficienza gestionale: prevedere due livelli, in due amministrazioni diverse - quella dell'Ente Parco, con poteri di "direzione" di "ogni intervento e progetto" nelle RNS incluse nel Parco, e quella del CFS (si immagina nella veste dell'UTB, ma non è precisato), attraverso il quale agire concretamente nella gestione - è del tutto senza senso dal punto di vista manageriale e penalizzante sia per gli enti parco che per il CFS.
Nella mia recente esperienza al Parco Nazionale del Circeo come Direttore devo dire poi che anche dal punto di vista operativo non solo è farraginoso il meccanismo (lì già sperimentato con la formula della convenzione), ma per quanta buona volontà possano mettere i dirigenti dei due uffici è inevitabile che un Giano bifronte come questo abbia un livello di efficienza del tutto insoddisfacente e defatigante nel rapporto quotidiano. Le "dipendenze funzionali" di uffici diversi, soprattutto se quello teoricamente dipendente è un corpo di polizia con le sue gerarchie
interne, sono illusioni impossibili. E se possono reggere - con fatica - su attività come quella di sorveglianza propria del CFS, effettuata dai CTA, dove l'Ente può produrre "indirizzi", ma lasciando al ruolo di PG del CFS la propria dovuta autonomia, questo non è possibile parlando di gestione concreta del territorio e delle politiche di conservazione, che l'Ente Parco non può non avere pienamente.
La conseguenza finale di questo modello, soprattutto in quei parchi (Valgrande, Dolomiti Bellunesi, Foreste Casentinesi, Circeo, per citarne alcuni) dove grandi sono le RNS e le proprietà demaniali e piccole le strutture degli Enti Parco, è il rischio che gli uffici di questi ultimi si riducano a sportelli di spesa a servizio operativo del CFS.
Invece di questo pastrocchio si abbia il coraggio delle scelte: se si ritiene che non ci siano le condizioni politiche e di finanza pubblica per passare armi e bagagli le competenze attualmente del CFS agli enti parco nazionali, si evitino duplicazioni e si rinunci all'attuazione della legge quadro, riconducendo univocamente la gestione delle riserve al CFS, che se ne assuma pienamente e autonomamente la responsabilità, anche nei confronti del pubblico, senza appoggiarsi finanziariamente agli enti parco. In questo caso il ruolo degli enti sarà di mera pianificazione del territorio e di autorizzazione degli interventi, così come avviene per le proprietà di demanio comunale presenti sul suo territorio. Se non si sa fare meglio di questo, ci si assuma la responsabilità politica di questa scelta, ma non si obblighino enti e CFS a un complesso confronto quotidiano.
Altrimenti, si passi immediatamente e senza indugi agli Enti Parco Nazionali la gestione e le competenze delle aree demaniali nei parchi nazionali - non solo quelle nelle RNS, ma anche quelle incluse nei parchi nazionali al di fuori delle RNS che sono in comunque in gestione al CFS -, con il personale civile e le strutture e risorse associate.
Se così non fosse, si smetta di chiedere ad ogni piè sospinto agli enti parco di autofinanziarsi.
Se non si dispone dei beni demaniali - inclusi gli edifici - all'interno del loro territorio, come possono gli enti "far pagare biglietti"? Per cosa? Come possono gli enti porsi in un ottica gestionale se non hanno un proprio patrimonio? Se non hanno la possibilità di gestire i boschi, la raccolta dei prodotti del sottobosco, gli eventuali tagli gestionali anche in termini di recupero economico? O la pesca nelle acque interne? Se non possono disporre degli edifici nei quali sono esistenti o vogliono realizzare centri visitatori e musei? Se non hanno la gestione di foresterie, ostelli, rifugi?
Allora - lo dico provocatoriamente, ma non tanto - si chieda agli UTB di autofinanziarsi, non agli Enti Parco. La questione della gestione dei beni demaniali nei parchi nazionali, sottratti giustamente dal federalismo demaniale per evitare ogni appetito speculativo, non si risolve con soluzioni confuse e duplicazioni di ruoli.
C'è una soluzione ancora più coraggiosa, e ancora più difficile.
Seguire la strada che ho appena sopra definito (il passaggio agli Enti Parco degli UTB e dei beni associati), ma all'interno di un trasferimento dell'intero CFS al Ministero dell'Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare, soluzione più volte ipotizzata, e che chiederebbe ovviamente un passaggio legislativo. Ciò permetterebbe di razionalizzare il sistema, utilizzare tutto il personale in divisa - che oggi negli UTB svolge un compito per lo più gestionale, tecnico ed amministrativo - nei compiti di polizia ambientale che rappresentano dopo la riforma la vera vocazione del CFS, razionalizzando le strutture attualmente negli UTB all'interno di un quadro più generale di "fusione" delle strutture del MATTM con quelle del CFS.
Un'altra rilevantissima questione è quella delle carriere e della formazione del personale dei parchi nazionali. Un tempo era normale che i soli due parchi nazionali storici gestiti da personale civile avessero propri distinti ruoli.
Ma ora, ci chiediamo: ha senso che esistano piante organiche di diversi enti parco di meno di quindici unità?
Che i Direttori dei parchi siano sempre e solo esterni all'Amministrazione, e che terminato il loro incarico, con un bagaglio notevole di esperienze e capacità acquisite - e non facili da acquisire - ritornino da dove sono venuti senza nulla lasciare al sistema?
Che prospettive di crescita professionale ha chi opera in un ente di undici unità in tutto, meno di una comunità montana o di un comune medio-piccolo?
A fronte di sfide come la conservazione della biodiversità italiana, il confronto e la collaborazione su progetti internazionali, la gestione di specie minacciate dalla complessa biologia e con tecniche avanzate di monitoraggio radio e satellitare o di analisi genetica del DNA?
O come lo sviluppo di sistemi economici locali sostenibili affrontando problemi dalla gestione dei rifiuti a quella del traffico, alla realizzazione di strutture di interpretazione di avanguardia allo sviluppo di marchi commerciali nell'agricoltura e nel turismo?
Un altro atto di coraggio sarebbe il riordino del personale degli enti parco in un ruolo unico nazionale, magari quello del Ministero dell'Ambiente, in modo da favorire scambi di personale e di esperienze tra gli uffici centrali e quelli territoriali (oggi impossibile), incluso - se si realizzasse il passaggio al MATTM del CFS - il personale civile degli UTB. Per i livelli dirigenziali vorrebbe dire avere un ruolo di dirigenti del Ministero e dei parchi nazionali, in modo che la politica (che sia il Ministro o il Presidente del Parco) possa scegliersi un direttore, ma nell'ambito di un ruolo di dirigenti formati e di carriera.
Qualcuno propone in senso analogo una Agenzia nazionale, che pure sarebbe una buona idea, ma ci pare che un ruolo unico che accorpi quello del Ministero, quello dei parchi nazionali e magari anche quello dell'ISPRA possa aprire alla doppia esigenza di avere carriere che permettano una reale crescita professionale e una maggiore libertà della politica.
Insomma, pensiamo che se una riorganizzazione del sistema vada fatta, deve essere preceduta da una attenta disamina dei problemi e del quadro attuale di riferimento, senza ideologismi ma anche senza rinunciare a effettuare le scelte necessarie, anche se magari poco apprezzata da qualcuno, e con attenzione agli obiettivi che per noi sono sempre la conservazione della biodiversità e la crescita sociale ed economica dei contesti locali del parchi nazionali con attività compatibili.

Giuliano Tallone
Presidente LIPU-BirdLife Italia