Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 59



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Il peso leggero di Erri

A colloquio con Erri De Luca
su ambiente, montagna, mare e aree protette

I suoi libri scalano puntualmente tutte le classifiche di vendita; le sue righe sono tanto di facile lettura quanto di assoluta profondità.
Ogni sua parola scava una necessità di riflessione che ci chiama a riempire.
Il suo disincantato rapporto con la natura è la risposta a una necessità, sia che arrampichi sulle pareti a strapiombo sia che si immerga nelle acque del mare, praticata per distillare i
pensieri.
Erri De Luca ha sensibilità arcaiche per la natura.
Anzi, ha sensibilità profonde per ogni cosa. Lui, laico, capace di approfondire i testi sacri risalendo alle lingue originarie delle Scritture.
Lui, uomo di mare, capace di infilarsi nelle strette fessure delle rocce dolomitiche, superare strapiombi, pendersi nel vuoto.
Lui uomo alla ricerca dell'origine di ogni cosa nel tentativo di riportare senso di giustizia e di libertà tra gli uomini.
Cose che erano all'origine.
Ogni suo pensiero trascritto sulla carta bussa al nostro cuore.
Ne siamo coinvolti, ma spesso, poi, con la stessa istintività primigenia con cui lo abbiamo accolto, siamo disposti ad archiviarlo nella parte più remota del nostro cervello. Fino a tradirlo.
Perché Erri ci rivela parti tanto naturali quanto, spesso, scomode di quella che dovrebbe essere la nostra naturale predisposizione agli accadimenti delle cose del mondo. Siano essi quelli che ci coinvolgono direttamente siano quelli che si verificano al di fuori di noi cui, tuttavia, non possiamo ritenerci estranei.
Perché tutto ciò che accade fuori o dentro di noi, ci appartiene.

Quando saremo due saremo veglia e sonno
affonderemo nella stessa polpa
come il dente di latte e il suo secondo
saremo due come le acque, le dolci e le salate
come i cieli, del giorno e della notte,
due come sono i piedi, gli occhi, i reni
come i tempi del battito
i colpi del respiro
Quando saremo due non avremo metà
saremo un due che non si può dividere con
niente
Quando saremo due, nessuno sarà uno
uno sarà l'uguale di nessuno
e l'unità consisterà nel due.

Solo andata.
Righe che vanno troppo spesso a capo
Feltrinelli 2005

Incontro Erri nella trattoria di una delle ultime Società di mutuo soccorso della Valle di Susa -quella dei No TAV- prima che partecipi a una serata nella quale avrà occasione di esporre non solo le sue affinità elettive con le pareti, i chiodi, le imbracature, gli spit, i nuts, i friends, le corde doppie, ma anche o forse soprattutto con quel che resta della politica e con le ambizioni di un futuro da migliorare cui non possiamo abdicare.
Sarà soprattutto questo, in verità, il tema del suo intervento di fronte a una vasta platea che il suo destino se lo vuole regalare -e se necessario anche conquistare- davanti a chi glie lo vorrebbe imporre in nome di interessi globali che non necessariamente vanno condivisi.
Specie quando non sono affatto guidati da principi e criteri di sostenibilità ambientale e sociale e meno che mai da prospettive di sviluppo sostenibile e durevole.
Ma non è per discutere di queste cose, che ci troverebbero facilmente in sintonia, che sono qui.
Mi interessa comprendere meglio il suo rapporto con la montagna e con la natura.
La sua sensibilità e profondità di pensiero applicata nei confronti del rapporto uomo ambiente in un'epoca storica in cui dalla esplosione industriale in poi l'uomo ha creduto di poter fare a meno di riconoscere e applicare le regole di natura per darsene di sue.
Alla fine il trionfo di un sistema che in apparenza è sostanzialmente accettato, sia pure con diversa declinazione, dal capitale e dalla forza lavoro perché entrambe soddisfa. A essere penalizzato, solo -si fa per dire- l'ambiente e le risorse naturali schiacciate da uno sfruttamento che, senza incertezze e dubbi sul loro progressivo esaurimento e fiducioso sulle "magnifiche sorti e progressive", racchiuse nella potenza della mente umana e delle sue tecnologie, ci sta conducendo dritti dritti verso un possibile collassamento del Pianeta.
Il rapporto tra ecosfera e antroposfera non tollera lo scontro, ha necessità di equilibrio e armonia se si vuole che sia garanzia di futuro sostenibile.
Per questo il rapporto tra uomo e ambiente ha bisogno, più che mai di riflessioni profonde.

«Ambiente viene dal latino ambire che non significa avere ambizioni, ma circondare.
L'ambiente è ciò che circonda. Per molto tempo della nostra storia noi, come specie e razza umana, siamo stati circondati da un ambiente spesso aggressivo, difficile, ostile.
Ciò che è accaduto nelle ultime generazioni è stato il rovesciamento dei rapporti di forza tra natura e creatura umana. Siamo noi quelli che oggi circondano l'ambiente.
L'ambiente non è più ambiens ma è ambitus, cioè circondato da noialtri e alla fine tende ad arrendersi, a dare segni di cedimento, di crollo delle sue difese, anche di quelle immunitarie, contro l'accumulo dei nostri veleni.
Se oggi dovessimo immaginare come finisce il nostro mondo, ci dovremmo immaginare a quale delle micce, a quale delle bombe che abbiamo innescato in questo ambiente, esploderà
per prima.
Quindi siamo responsabili di devastazione dell'ambiente.
Oggi è molto più grave di quello che possiamo ammettere.
La qualità dell'aria che respiriamo è una qualità nociva micidiale.A tal punto che non possiamo nemmeno ammetterlo, non possiamo neppure informarci.
Si può privatizzare l'acqua ma non si può maledire l'aria.
Stabilito questo, è chiaro che le persone cercano sempre di più i parchi, la montagna, perché lì siamo minoranza anche quando ci andiamo in tanti.
L'ambiente è così ostile e rarefatto che riusciamo a disperderci».

Le aree remote del pianeta, non a caso, sono sempre più attrattrici di una domanda di solitudine e di isolamento che rischia di comprometterle.
Se la gente si riversa ad occuparle ecco che così come magicamente si era creata, l'atmosfera che cercavamo diventa ben presto impalpabile e la solitudine di cui andiamo alla ricerca improvvisamente diventa moltitudine.
Non è un caso che, spesso, molte aree protette siano localizzate sulle terre alte.
«La montagna è stata sempre un posto remoto.
Nessuna civiltà ha mai avuto intimità con le montagne; si sono sempre fermate sotto, alle pendici, non si sono infilate, avvitate verso l'alto.
Le più grande civiltà montanare che abitavano sotto le montagne, come per esempio quella del Nepal o del Tibet, hanno considerato le montagne luogo e abitazione degli Dei.Tanto per dire che loro stanno là sopra ed è bene non disturbare la loro residenza.
Bisogna rimanere sotto.
Le montagne sono un posto in cui siamo particolarmente intrusi: questo è un buon sentimento, ci fa del bene sotto il profilo planetario e mentale.
Perciò sempre di più le persone si avvieranno in montagna. E noi abbiamo montagne bellissime, le più belle d'Europa. Abbiamo avuto anche questa fortuna supplementare, noi abitanti di questo Paese pieno di grazia.
Le montagne saranno un posto di ricovero, di fuga, di protezione e di difesa.
Come c'è un ritorno alla campagna ci sarà, anzi è già in corso, un ritorno alle montagne come reazione alla nostra aggressione all'ambiente e per sentirci di nuovo circondati da un ambiente e non circondatori dell'ambiente ».

Un albero solitario ha un recinto invisibile, largo quanto l'ombra da poggiare intorno. Prima di entrarci tolgo i sandali. Mi stendo alla sua luce.
Esistono in montagna alberi eroi, piantati sopra il vuoto, medaglie sopra il petto di strapiombi. Salgo ogni estate in visita a uno di loro. Prima di andare via monto a cavallo del suo braccio nel vuoto. I piedi scalzi ricevono il solletico dell'aria aperta sopra centinaia di metri. Lo abbraccio e lo ringrazio di durare.

"Il peso della farfalla"
Einaudi 2009
Un albero ha bisogno di due cose: sostanza sotto terra e bellezza fuori. Sono creature concrete ma spinte da una forza di eleganza.
Bellezza necessaria a loro è vento, luce, uccelli, grilli, formiche e un traguardo di stelle verso cui puntare la formula dei rami.
Un albero somiglia a un popolo, più che a una persona. S'impianta con sforzo, attecchisce in segreto. Se resiste, iniziano le generazioni delle foglie. Allora la terra intorno fa accoglienza e lo spinge verso l'alto.
La terra ha desiderio di altezza, di cielo. Spinge i continenti all'urto per innalzare creste.
Si struscia attorno alle radici per espandersi in aria con il legno.
E se è fatta a deserto, fa polvere per salire. La polvere è una vela, migra, scavalca il mare. Lo
scirocco la porta dall'Africa, ruba spezie ai mercati e ci condisce la pioggia.
Razza di capomastro è il mondo!

"Tre cavalli"
Feltrinelli 1999
Il rapporto di Erri con l'ambiente alpino è remoto, risale alla sua infanzia, anche se l'inizio è per sentito dire.
«Scoprii e continuo a scoprire la montagna a Natale non perché ci andassi ma perché è il momento in cui si parla di montagna si cantano le canzoni di montagne, si imparano le storie… perché mio padre veniva da lì, da quelle storie.
Mio padre era alpino. Nella seconda guerra mondiale si arruolò come volontario, una gesto che ha sempre rimpianto; si è sempre considerato uno stupido ad essersi fatto infinocchiare dal nazionalismo fascista.
Però si trovò poi ad aver condiviso un'esperienza con uomini di montagna, gente di montagna e posti di montagna, che gli hanno tenuto compagnia per tutta la vita.
Mi ha sempre parlato pochissimo di armi, di montagna abbastanza.
Quindi mio padre mi ha infettato con le sue montagne.
Non è mai stato scalatore, mentre io lo sono diventato e pratico l'alpinismo.
Come non è mai stato scrittore ma un ottimo lettore sì ed io sono diventato scrittore.
Alla fine credo che si ereditino le cose che il padre non è riuscito a fare, si erediti la sua omissione, il suo desiderio mancato.
Si erediti un debito.
Non le ricchezze o i beni, che nel suo caso neppure c'erano e dunque non si sarebbero neppure potute ereditare.
Ma si ereditano davvero solo le cose che sono rimaste sospese nella vita precedente.
È successo a noi che ci siamo occupati di comunismo senza che lo avessimo inventato noi. Era una parola inventata dal secolo e dalla generazione precedente.Abbiamo creduto di doverla compiere, portarla a termine, interpretarla e realizzarla.
Succede di ricevere delle eredità di questo genere.
La montagna è una di queste mie eredità».

L'altra è sete di uguaglianza, di giustizia, di liberazione dallo sfruttamento di uomini e natura.

Alla parola "progresso" riconosco il solo valore di risparmiare energia. [...] La cosa strepitosa della nostra specie è che le macchine del progresso, del risparmio di sforzo, non sono state usate per avere poi più tempo libero, anzi per aumentare il prodotto del lavoro. Aumentavano gli arnesi del progresso e non diminuiva il tempo del lavoro.
La nostra specie accumula progresso, ma non sollievo.

Il nostro mondo poggia sulle spalle dell'altro. Su bambini al lavoro, su piantagioni e materie prime pagate a costo spicciolo: spalle di sconosciuti reggono il nostro peso, obeso in sproporzione di ricchezze. L'ho visto.

"Sulle tracce di Nives"
Mondadori 2005
Nell'eredità montana Erri non si è accontentato di salire a piedi verso l'orizzonte verticale.
«Salire non mi bastava, ho voluto la via strisciata sulla roccia, ho amato lo strapiombo imparando a scalare, un'attività che mi è diventata occasione di manutenzione per le mie ossa che non hanno bisogno di troppo allenamento, è sufficiente il mio scarso peso.
Ma l'alpinismo non è eroico pur avendo in sé qualcosa di commovente: il rischio accolto a braccia aperte.
L'alpinismo è un rischio festivo, si va in montagna per gioia, per frequentare la bellezza.
Andare in montagna risponde allegramente "Nessuno" alla domanda:"Chi te lo fa fare?".
Nel tempo in cui mosse senza tornaconto sono definite inutili, l'alpinismo rivendica il buon nome del suo gesto gratuito».

In una pagina dedicata alla madre ha scritto della sua nascita dentro di lei che non la lasciava vuota: era lui a portare il vuoto con sé.
«Vado in montagna per stare con quel vuoto.
La montagna è anche la mia pratica, un luogo dove vado a procurarmi un deserto provvisorio. Lì la mia specie è in inferiorità schiacciante.
Sono ospite minuscolo e intruso e mi tengo compagnia con il vuoto».

In montagna la terra si spalanca alla pioggia, alla grandine, alla neve, le montagne applaudono i fulmini con scariche di sassi. I ghiaioni che stanno alla base delle Dolomiti sono un mare di applausi, di roccia spellata, bianca confetto, un calcare da nozze.

Da quando scalo e arrampico, ho stima di tutte le creature che lo fanno meglio di me, dal ragno all'orango. Ammiro la mancanza di sforzo, l'eleganza che è sempre il risultato di un risparmio di energia. Penso agli animali per desiderio della loro perfezione. Sono i miei patriarchi, i miei maestri.

"Sulla traccia di Nives"
Mondadori 2005
L'uomo poteva anche scalare difficoltà superiori, salire dritto dove loro aggirano, ma restava incapace della loro intesa con l'altezza. Loro ci vivevano dentro, lui era un ladro di passaggio.
Gli zoccoli del camoscio sono le quattro dita del violinista.Vanno alla cieca e non sbagliano millimetro.
Schizzano su strapiombi, giocolieri in salita, acrobati in discesa, sono artisti da circo per la platea delle montagne. Gli zoccoli del camoscio appigliano l'aria. Il callo a cuscinetto fa da silenziatore quando vuole, se no l'unghia divisa in due è nacchera di flamenco. Gli zoccoli del camoscio sono quattro assi in tasca a un baro.
Con loro la gravità è una variante al tema, non una legge.

"Il peso della farfalla"
Feltrinelli 2009
Dall'eredità della montagna all'origine dal mare, per lui nato nella città del sole e del mare per antonomasia, Napoli.
«Il mare è stato per me l'esperienza della libertà e del selvatico. Provenendo dai vicoli di Napoli avevo la possibilità di stare per tre mesi sopra a un isola.
Era esattamente il contrario, era spogliarsi di tutto a cominciare dai piedi, dai sandali, dalle scarpe. Andare scalzo per tre mesi all'anno, indurire quel callo sotto il piede che era esattamente la libertà, quell'ispessimento del corpo -allora non si usavano le creme, le protezioni- che subiva una muta come i serpenti, bruciava e spellava fino a cambiare pelle.
Ebbene quell'ispessimento, quella pelle seconda era la libertà.
Libertà sfrenata.
Sull'isola non ci si lavava più perché non c'era l'acqua; bastavano quella salmastra del mare e
la sabbia, per sgrassarsi.
Poi il contatto con la vita che c'era in mezzo all'acqua: andarla a pescare, estrarla viva e talvolta persino divorare vivo quel pescato.
Imparare le tecniche della pesca, andare con i pescatori..., allora era possibile.
Così era l'educazione del mare.
E il mare mi ha insegnato, per tempo, che la natura non è lì a vezzeggiarci o lì come campo di gioco, ma è un posto dove ci si guadagna i centimetri con il rischio aperto di essere continuamente cancellati.
In quel mare come in montagna.
I pescatori della mia infanzia non sapevano nuotare.
Ma come, lo sapevo io, marmocchio che veniva dalla città e loro non lo sapevano!
Non gli serviva a niente saper nuotare.
Rovesciati in acqua d'inverno, in mezzo al mare, non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivere; nuotare o non nuotare».

Si ottiene dal mare quello che ci offre, non quello che vogliamo. Le nostre reti, coffe, nasse, sono una domanda. La risposta non dipende da noi, dai pescatori. (...)
Il mare non è una pianura nella burrasca, ma una salita piena di fossi.

"Tu, mio" Feltrinelli 2003

Ecco il rapporto vero, arcigno e severo, senza sconti, con la natura.
«Ho imparato che la natura aveva un'indifferenza verso di noi, non era lì per essere compiacente con la nostra presenza.
Ho ritrovato questa educazione sentimentale nei confronti delle forze di natura in montagna.
Però il mare è una via d'acqua, le civiltà si sono spostate sul mare, hanno esplorato il mondo attraverso il mare.
Le montagne no, sono uno sbarramento, un posto ostile dove noi siamo degli intrusi».

So per certo che in natura tutto è sopraffazione Vita concimata a morte, pure il fiore, però il fiore mi fa dimenticare la certezza.

"Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo", Feltrinelli 2005

La montagna è per me un luogo deserto dove si vede il mondo com'era senza di noi e come sarà dopo. Quassù in Himalaya mancano pure gli animali, non vola un'ala in aria, non c'è un'orma sulla neve. Ci vengo perché qui si approfondisce il sentimento di essere estraneo, un intruso del mondo.

"Sulla traccia di Nives", Mondadori 2005

Questa ostilità intrinseca delle terre alte le condanna a essere solo luogo di passaggio, terreno di gioco temporaneo per il nuovo uomo cittadino, o ha in sé risorse che ne possono fare anche un luogo di vita?
«La nostra montagna è una montagna stracarica di bellezza e questo comporta un'attrazione nei suoi confronti, un investimento di soldi, di economia, che ne fanno una risorsa.
Per questo non sto tanto a brontolare sugli impianti di risalita, anche se io salgo a piedi perché preferisco la salita alle discese. A me va bene salire, mi dispiace sempre scendere anzi, anche muscolarmente, mi è più ostile. Mi stanco di più a scendere che a salire.
Insomma prenderei volentieri un'ascensore in discesa.
Ma non mi dispiace questo proliferare di impianti di risalita. Serve a far avere un minimo di conoscenza e intimità con la bellezza della montagna a persone che non l'avrebbero mai avuta, consente la divulgazione delle terre più alte e ostili».

Avevo letto un libro di alpinismo, tra quelli usati di don Raimondo. Raccontava lo sfinimento della cima raggiunta, l'impulso di dormirci sopra mentre al contrario era urgente scendere, per non farsi raggiungere dal buio lontani dalla tenda. Dovevo pure io scendere dalla cima della felicità. (…) Il giorno dopo la felicità ero un alpinista che sbandava in discesa.

"Il giorno prima della felicità", Feltrinelli 2009

Conoscere per comprendere, prendere coscienza, divenire consapevoli.
Una funzione primaria per le aree protette che la esercitano a partire dall'educazione ambientale per i giovani, le generazioni di domani sempre più distanti dalle esperienze d'infanzia che Erri ha vissuto e raccontato e che dovrebbero essere recuperate per divenire parte della coscienza profonda di ognuno.
«Quanto ai parchi, più aree protette ci sono meglio è. Più confini -oltre i quali non possiamo abusare della nostra confidenza con il suolo, l'aria, l'acqua- più sbarramenti ci sono, più isole piantiamo sulla nostra superficie, meglio è» Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finchè dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov'è il nord, qual'è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato,qualunque colpa sia.
Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

"Opera sull'acqua ed altre poesie", Einaudi 2002

È leggero e profondo il peso di Erri De Luca sulla terra.
Le sue parole, dette, scritte o recitate, ci danno una bussola per orientarci di nuovo nel labirinto della vita.
I suoi occhi profondi sanno guardare prima di tutto dentro se stesso raccogliendovi l'eredita a volte pesante, talvolta gioiosa, di ciò che è stato non solo in lui.
Le sue parole, dette con lentezza grave sono il distillato di un pensiero e di una esistenza mai rassegnati al superficiale, alla banalità.
Se l'umanità sarà in grado di scuotersi dalla rassegnazione dell'incombente apatia e saprà riprendersi in mano un destino di giustizia, di libertà, di pace tra gli uomnini e tra essi e l'ambiente che li circonda, lo dovremo anche alla poesia che continua ad attraversare il mondo trovando interpreti che la sanno rappresentare con la profondità leggera di Erri.

La vocazione irrompe nella vita di una persona spesso non adatta e schiva, come per esempio il profeta Giona/Jonà e la trascina lontano mettendole in bocca parole non sue. Chi vuole sviluppare e approfondire la propria individualità, scansi la poesia. Il poeta, il profeta, non si esprime, ma si imprime in esseri umani remoti e sconosciuti. È spinto da un impulso che non coltiva la sua personalità, ma la cancella.
Al suo posto s'insedia una voce più antica che lo espone allo sbaraglio, all'incomprensione.
Attraverso di lui qualcuno in ascolto può acquistare felicità, salvezza. Il poeta, il profeta può solo obbedire. Questo è il suo azzardo sicuro: assecondare la deriva di una chiamata e escludere, rinunciare a un magro se stesso per essere un riassunto di altre volontà.
Alzaia, Feltrinelli 1977