Le molte ragioni contro la caccia nei parchi


La proposta di legge che intende aprire la caccia nei parchi nazionali modificando la legge quadro sulle aree protette (394/91) nonché la legge sul prelievo venatorio (157/92) è stata nuovamente posta all’ordine del giorno della Commissione Ambiente della Camera.
La relazione presentata alla Commissione, a supporto della proposta, adduce motivazioni piuttosto gravi ed anacronistiche basandosi sulla considerazione che “l’esercizio della caccia deve ritenersi compatibile con la protezione faunistica e della natura” e che “il rapporto non è conflittuale: spesso accade, infatti, che l’esigenza dell’equilibrio ecosistemico richiama l’intervento e la presenza costante del cacciatore”. La proposta di legge riparandosi dietro le suddette motivazioni pseudoscientifiche, inficia l’essenza stessa delle aree protette che hanno nella conservazione e nella tutela della fauna e della flora la loro finalità principale avallando, sostanzialmente, le richieste della lobby dei cacciatori affinché sia permessa la caccia anche nei parchi nazionali.
E’ da annotare che, storicamente, tra le finalità precipue delle aree protette, ed obiettivo della loro istituzione, c’è quella di ricercare il ristabilimento degli equilibri bio-ecologici senza l’intervento artificiali dell’uomo .
Le nostre non sono “affermazioni apodittiche” né tantomeno “posizioni ispirate ad un cieco integralismo ambientalista” così come vengono descritte dal relatore della proposta di legge, le argomentazioni di chi da sempre si è opposto all’apertura della caccia nelle aree protette. Nonostante il numero ufficiale dei cacciatori si sia più che dimezzato passando dal milione e mezzo del 1990 alle 700.000 unità del 2000, l’attività venatoria ha ancora un impatto devastante sulla fauna selvatica confermando l’accusa secondo la quale la caccia viene spesso svolta in condizioni di assoluta anarchia e rendendo quasi indistinguibile il sottilissimo confine che la separa dal bracconaggio. In Italia, infatti, si calcola, ad esempio, che più di 50.000 rapaci, specie particolarmente protette dalle normative nazionali ed internazionali, ogni anno vengono abbattuti dalle doppiette. A questa stima va aggiunto il 30% degli animali selvatici appartenenti a specie protette e ricoverati presso i diversi centri di recupero per la fauna selvatica che presentano ferite di arma da fuoco. Pensare, dunque, di dover aggiungere l’attività venatoria, alle cause naturali che determinano la normale fluttuazione delle popolazioni animali (epidemie, fattori climatici, mancanza di cibo, etc.) all’interno di un’area protetta sarebbe veramente una beffa.
E’ innegabile, che in molti parchi nazionali vi sia la necessità di una migliore gestione di talune specie di ungulati, come per esempio del cinghiale, per altro in molti casi giuntovi a seguito di scriteriate introduzioni a scopo venatorio, ma lo strumento per far fronte ai problemi legati alla gestione della fauna non può e non deve essere l’esercizio venatorio. Le dinamiche e gli equilibri ecologici sono così delicati che quando si riconosce la necessità di intervenire per far fronte ad una presenza eccessiva di una particolare specie, e ciò lo si può affermare solo dopo ricerche di campo atte a valutare la numerosità della popolazione animale in questione, lo si deve fare su basi scientifiche utilizzando le opportune metodiche che non disturbino, oltretutto, le altre specie presenti su quel territorio. L’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (INFS) ed il Servizio di Conservazione della Natura del Ministero dell’Ambiente, a tal proposito, hanno di recente distribuito una pubblicazione, dal titolo “Linee guida per la gestione del cinghiale nelle aree protette”, in cui si evidenzia la necessità di “un’analisi attenta delle motivazioni che stanno alla base delle richieste di intervento”, della “validità di tali richieste sulla base di elementi oggettivi di conoscenza” e della “scelta delle operazioni più opportune” prima di avviare le operazioni di gestione di una specie selvatica. Inoltre secondo l’INFS “risulta evidente che la classica braccata con cani da seguito, normalmente utilizzata per la caccia al cinghiale nel nostro paese, mal si presta ad essere adottata come sistema di controllo del cinghiale nei parchi”.
Un’ultima considerazione che ci spinge ad essere estremamente critici verso il disegno di legge è che le sole zone di riserva integrale delle aree protette, (le uniche in cui sarebbe vietato cacciare in un parco nazionale, sic !! quasi che le specie selvatiche fossero in grado di distinguere i confini amministrativi), potrebbero non garantire l'area minima vitale degli habitat e delle popolazioni animali. In tal modo, la sopravvivenza di specie, come per esempio l'orso, il camoscio appenninico, il lupo e il capriolo, sarebbero gravemente minacciate se rimanessero isolate in territori circoscritti senza possibilità di comunicazione con altre aree e con altre popolazioni della loro stessa specie. Il disegno di legge, dunque, inficia non solo l’importanza delle aree ad alta naturalità ma anche dei territori contigui e dei corridoi ecologici, che risultano indispensabili per consentire le relazione di aree distanti spazialmente ma vicine per funzionalità ecologica. Non a caso, infatti, il Ministero dell’Ambiente, sulla scorta della creazione della rete europea di aree protette, Natura 2000, ha “strutturato” la Rete Ecologica Nazionale al fine di realizzare una ”infrastruttura” naturale per collegare tra loro le aree di grande interesse naturalistico ed ambientale, le cosiddette core areas (parchi nazionali, siti di importanza comunitari, zone di protezione speciale, etc), mediante dei corridoi ecologici, le green ways e le blu ways, il cui scopo è quello di favorire lo stato ottimale della conservazione delle specie favorendone la dispersione e lo svolgimento delle loro dinamiche relazionali in frapposizione alle aree cuscinetto, buffer zones, nelle quali sono attuate le politiche necessarie per una corretta gestione delle attività antropiche.
La proposta di legge evidenzia come ancora sia radicata l’idea che la natura e l’ambiente in generale sia un’entità quasi astratta in grado di assorbire qualsivoglia devastazione e non piuttosto un bene della collettività. E’ innegabile che il grado di civiltà di un Paese si registra anche dalla capacità di conservare e tutelare il patrimonio ambientale al pari di quello storico ed artistico. Cosa sarebbe il nostro Paese se non si fosse conservato il barocco leccese piuttosto che il cinquecento toscano? In Italia è presente il 30% della totalità delle specie faunistiche e quasi il 50% di quelle floristiche che vivono in Europa e ciò deve fare riflettere sul grado di responsabilità che il nostro Paese ha nei confronti della tutela e conservazione della biodiversità. David Brower amava dire “Noi non abbiamo ereditato la terra dai nostri padri, ma l’abbiamo avuto in prestito dai nostri figli”, consentire la caccia nei parchi nazionali italiani potrebbe significare l’inizio di un lento ma graduale depauperamento di tale patrimonio, facciamo in modo, invece, che le generazioni future ne possano ancora godere.

Giuseppe Tagarelli
Ufficio Aree Protette
Federazione Nazionale Pro Natura




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