Come ti rivitalizzo la 394... liquidandola


Negli ultimi anni non sono mancate proposte di legge di modifica della legge quadro sulle aree protette. Generalmente si è trattato di proposte che riguardavano aspetti specifici e sovente marginali: tra le poche eccezioni possiamo ricordare la proposta di Alleanza Nazionale (tra i firmatari l’attuale ministro Matteoli), con la quale si prevedeva l’elezione diretta per gli Enti parco. Nessuna di queste proposte ha passato però l’esame ed è finita, senza rimpianti e proteste, nel dimenticatoio.

Il 24 settembre del 2002, proprio alla vigilia della apertura della Seconda conferenza nazionale di Torino sulle aree protette, è stata presentata alla Camera, a firma di un folto gruppo di parlamentari della maggioranza, la proposta di legge “Modifiche alla legge 6 dicembre 1991, n.394, in materia di aree protette”.
Ora, come è noto, in seguito al provvedimento di delega al governo a predisporre sette nuovi Testi Unici in materia ambientale - uno dei quali riguardante le aree protette - praticamente per 24 mesi risulterà bloccata qualsiasi attività legislativa sui temi in oggetto.
Potremmo quindi rimandare qualsiasi valutazione del testo della proposta al momento in cui il parlamento potrà rioccuparsi della questione. Ma l’alto numero dei firmatari della proposta di legge e la sua ambizione dichiarata - che è quella di riscrivere, anzi “rivitalizzare” la legge quadro - consiglia di non rinviare il giudizio.
Si tratta infatti di un preciso segnale politico, che conferma il fatto che molti non hanno mai digerito quella legge e non pensano di doverla modificare, integrare o correggere, ma vogliono stravolgerla e smontarla. A questo mira il testo in esame a cui va riconosciuta una franchezza persino brutale.

Infatti, dopo una vaga e un po’ criptica premessa, secondo la quale la legge andrebbe rivitalizzata appunto, “adeguandone i contenuti alla mutata realtà socio- politica e facendone uno strumento agile e moderno” entra in azione la ruspa. La legge (che è del ’91, mentre secondo il DPR 616/76 doveva vedere la luce nel 79!) sarebbe nata “frettolosamente”, “non pare abbia dato buoni frutti”, sarebbero “pochi i parchi istituiti” e per di più frenati, inceppati, limitati nel loro sviluppo e nel loro ‘appeal’ anche perché condizionati “dalle inattuali, punitive e superate previsioni della legge” stessa.
La legge è ritenuta “frutto di un centralismo esasperato e stupido, fonte di apparati burocratici inutilmente costosi, causa di irragionevoli e non accettabili divieti e vincoli”…”arroccata su moduli centralistici retrivi e antistorici, di stampo quasi sovietico”. Dopo questa solenne ouverture, viene da chiedersi come sia possibile (e si debba) “rivitalizzare” un simile mostro. Resta un’altra curiosità: per anni si è detto (da parte di alcuni fra i firmatari) che la legge aveva addirittura dato il via nel nostro paese ad una vera e propria moda; quella della “parcomania”. Ora questi parlamentari scoprono che i parchi sono pochi e rachitici. Anzi, che bisogna “rimuovere tempestivamente gli squilibri ed i vizi, anche per mettere l’Italia al passo degli altri paesi europei dando segnali di attenzione per la tutela dell’ambiente attraverso l’istituzione di aree protette in vista del programmato obiettivo di proteggere il 10% del territorio nazionale”.
La proposta reca la data del 22 settembre 2002, ma deve essere stata scritta qualche anno fa se ai firmatari ancora non risulta che fortunatamente in Europa non siamo oggi il fanalino di coda e che il 10% è stato raggiunto. E comunque, dopo essersi lamentati che i parchi sono pochi, la loro proposta prevede la cancellazione del Parco del Gennargentu e l’abrogazione del relativo decreto istitutivo.

Pochi i parchi dunque, ma anche zeppi di gente che costa. Questa è l’altra scoperta, in aperto contrasto con il contenuto delle audizioni alla Commissione ambiente della Camera sulla capacità di spesa dei parchi nazionali – in corso proprio in questi giorni - dalle quali emerge, fra le altre cose, che gli Enti parco attualmente hanno piante organiche sottodotate, che non possono avvalersi di dirigenti idonei, e soprattutto non decidono dei direttori e del personale di sorveglianza.

Se fin qui siamo nel prosaico più grossolano non poteva mancare, in un testo tanto ambizioso, la parte “colta”.
Quanto previsto dall’art. 1 della 394 - ossia la realizzazione dell’integrazione tra uomo e ambiente naturale - è infatti considerato “pomposa filosofia”, perché “una effettiva integrazione tra uomo e ambiente, una sorta di sinallagma (!) esistenziale, sociale, economico, morale ed anche religioso tra l’uomo e la natura, un vero e proprio ‘scambio’ di valori e di vantaggi si realizza solo se ed in quanto l’uomo non sia terzo e distante dal mondo naturale, ma ne decida direttamente”. Il tutto per “restituire all’uomo, come abitante della terra (!!), come cittadino, come individualità, come soggetto organico nei diversi livelli delle autonomie locali, quel ruolo di insostituibile centralità nell’ambiente naturale che la legge 394 non aveva saputo e voluto dettare e realizzare”. E meno male che era “pomposa” la legge quadro! Chissà non sia il caso di inviare a tutti una copia della ristampa di “Uomini e parchi”.

Tornando a rimettere i piedi per terra, possiamo passare all’articolato vero e proprio, per brevità raggruppando le questioni e cominciando da come un parco, in base a questo testo, dovrebbe nascere. Intanto, a dispetto di tutte le norme sulla semplificazione normativa (su cui si incentra anche la delega al governo per i Testi unici), i parchi dovrebbero essere istituti con provvedimento legislativo, salvo quelli marini (evidente dimenticanza) che continueranno ad essere istituiti con un decreto. Il perché non lo sappiamo.
Ma ecco l’arma segreta: le disposizioni della legge istitutiva diventano operanti “solo dopo che i cittadini dello stesso comune, interpellati con referendum, abbiano manifestato a maggioranza la volontà favorevole alla inclusione del territorio comunale nel parco o nella riserva nazionale”. E il referendum è valido solo se vi ha preso parte oltre la metà degli iscritti, altrimenti non è valido e “per un tempo non inferiore ai dieci anni” non se ne parlerà più.
E dopo una nascita così travagliata - in cui gli aborti sarebbero spesso la regola – anche vivere, per i parchi, sarebbe una gran fatica. Nonostante i proponenti abbiano lamentato il basso numero di parchi ed evocato il traguardo del 10%, ecco che secondo loro i perimetri potranno essere ridotti ma non aumentati! C’è il particolare che l’art 4 della 394, al quale essi si riferiscono per introdurre questo geniale criterio, è stato da qualche anno abrogato: il piano triennale non esiste più, quando si dice la distrazione!
Non è certo una distrazione la cancellazione di qualsiasi riferimento agli interventi da effettuare da parte del parco, od alle sanzioni da infliggere a chi agisce abusivamente. Un esempio fra i tanti: l’attuale articolo 29 della 394 stabilisce che chi ha realizzato opere in difformità dal regolamento o dal nulla osta è tenuto, oltre al resto, alla ricostituzione delle specie animali e vegetali scomparse; ebbene: i riferimenti alle specie animali e vegetali sono stati, nella proposta, cancellati.
Non c’è da stupirsene. Infatti il parco che esce da questa cura “rivitalizzante” è l’ombra di quello attuale: non più titolare del piano (oggi predisposto congiuntamente alla Comunità del parco), non predispone neppure lo statuto, che dovrebbe essere elaborato da una commissione presieduta dal presidente della regione e dai sindaci e approvato poi dalla regione. Al parco non resterebbe che applicarlo, a proposito di cose “calate dall’alto”!
Il parco dovrebbe poi aprirsi alla caccia, salvo nelle riserve naturali che, come tutti sanno sono generalmente piccola parte dell’area protetta (visto che è “antropizzata”) e ovviamente far sedere nel proprio consiglio anche i rappresentanti delle associazioni venatorie.
Tutto il rumore – a questo punto da ritenere demagogico - sul ruolo degli enti locali, delle comunità locali “espropriate” e “penalizzate”, partorisce insomma un parco con finalità sbiadite, con poteri fortemente ridimensionati, dove persino la sorveglianza non solo non dipende dal parco, ma può essere appaltata anche ad associazioni venatorie e comunque privatizzata. Vincoli e divieti vengono introdotti in dosi massicce per ritardare o impedire le decisioni del parco: i tempi delle procedure si allungano, le deroghe si moltiplicano (persino per l’accensione dei fuochi all’interno dell’area protetta). Il comune è usato come testa d’ariete antiparco, salvo poi prevedere la partecipazione alla comunità del parco anche dei parlamentari e dei consiglieri regionali. Le tanto declamate tradizioni locali sono citate soltanto quando si parla delle regioni “speciali”.
Lungi dall’essere di fronte ad una legge anticentralista, siamo in presenza di una strumentalizzazione del ruolo dei comuni, che finirebbero per acquisire una funzione subalterna e protestataria. Specie i più piccoli e deboli rimarrebbero ai margini di una realtà in cui invece essi debbono essere immessi con il massimo di dignità, di potere e di risorse. Al comune, in questa visione, è riservato il ruolo di una permanente azione di sabotaggio e di freno nei confronti dei parchi i quali, come l’esperienza di questi anni dimostra, sono spesso la sola - o comunque la più importante - opportunità di riscatto della dimensione locale.
In definitiva si tratta di una proposta di legge utile a far comprendere quale sia la strada da non imboccare per stare al passo con l’Europa e costruire un funzionate sistema nazionale di aree protette.

Renzo Moschini




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