“Benefici oltre i confini”. E da noi?


Tra pochi mesi si terrà, a Durban in Sud Africa, il quinto Congresso mondiale dei Parchi. Dieci giorni di progetti, discussioni, analisi, confronti, ricerche comuni sul tema generale “Benefici oltre i confini”. Quel tanto di rituale e retorico che queste manifestazioni comportano – con l’inevitabile ridondanza tra l’altro imposta dalla presenza di capi di stato e di altre altissime personalità – in questo caso non nasconderà, forse addirittura riuscirà ad enfatizzare, lo straordinario valore del tema messo al centro dell’appuntamento e la portata degli argomenti che verranno affrontati per ragionare – a scala planetaria - attorno a quel tema. Una occasione unica per verificare la crescita esponenziale, realizzata in questi dieci anni, delle esperienze di gestione finalizzata alla conservazione e al recupero di territori straordinari in ogni parte del mondo. Per confrontare concezioni e visioni che, un tempo assai lontane a seconda del continente in cui maturavano, si stanno oggi avvicinando moltissimo, sotto la spinta dei problemi e dei rischi che accomunano popoli e continenti. Basta leggere il titolo della discussione principale – “Aree protette e cambiamento globale” – per comprendere quanto condiviso sia ormai l’obiettivo di fare dei parchi non solo strumenti di “difesa” che, da sola, sarebbe destinata a fallire, ma delle opzioni di “attacco” al sistema prevalente e dannoso di gestione, per estenderne oltre i confini, appunto, valori e pratiche benefiche.
In questo contesto l’esperienza mediterranea - e italiana in particolare - hanno un valore considerevole, in quanto sono il frutto di visioni culturali, azioni legislative e pratiche amministrative che si sono ormai da più lustri ispirate all’idea di “parco laboratorio”, destinato ad irradiare nei territori circostanti e, più in generale, nelle attività di gestione di altri enti gli eventuali risultati positivi acquisiti. Durban potrebbe essere, per l’Italia, la sede dove sancire un ruolo d’avanguardia per i propri parchi, giovani sì, ma già in grado di presentare una lista di risultati di sicuro interesse anche “oltre i confini”, valga per tutti il cammino di APE – Appennino Parco d’Europa. “Potrebbe essere”. Il condizionale è necessario, poiché l’Italia vive oggi una fase in cui sembrano messi in discussione, e ai livelli più alti, quegli stessi criteri che a Durban saranno proposti come universali.
Sembra qui da noi che in alcuni casi l’obiettivo non sia quello di utilizzare il buono che l’esperienza ha prodotto – sul piano del rapporto tra tutela e sviluppo, della partecipazione dei cittadini alle scelte - per ampliarne la portata ed i beneficiari, per diffonderne i criteri e le modalità di attuazione. Sembra al contrario che l’azione sia diretta a “mettere in riga” i parchi che hanno disturbato il manovratore, che sia indirizzata a reintrodurre nei loro confini le pratiche e le pressioni esterne. I recentissimi esempi del Gran Sasso e del Cilento sono significativi. Nel primo caso è stato costituito un comitato extraistituzionale, con lo scopo dichiarato di ridurre lo spazio operativo di un parco scomodo, e lo si è chiamato “authority”, come se lo Stato, con la scelta dell’istituzione del parco non avesse già provveduto a dotarsi di una autorità istituzionale. Nel secondo caso un inopinato commissariamento tenta di interrompere una vicenda amministrativa che si segnala, in quella situazione regionale, per vivacità e collaborazione.
Sono esempi, in un panorama che nonostante tutto conserva una notevole capacità di elaborazione, una buona vitalità e l’accumulo di esperienze assai positive. Ma se questi casi dovessero moltiplicarsi e non fossero velocemente superati ci sarebbe da dubitare della possibilità del sistema italiano di aree protette di rappresentare appieno quella visione del ruolo dei parchi che pure ha contribuito ad affermare.

l.b.




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