Rassegna del 17 Gennaio 2005

E nei parchi nutrie e salamandre

Fine del censimento: pronto il primo Atlante dei mammiferi capitolini

Anche loro sono romani. Magari acquisiti dal Sud America o dalla Siberia, o semplicemente autoctoni. Mangiano, non pagano le tasse, abitano i nostri parchi e le nostre riserve naturali, figliano come mamma natura insegna e, a volte, producono con la loro presenza insolita trasformazioni nell'ecosistema cittadino di cui non sempre ci accorgiamo. Sono gli animali romani. Per conoscerli meglio ecco in arrivo il primo Atlante dei Mammiferi di Roma, un gigantesco e certosino lavoro di ricerca e di catalogazione della fauna romana al quale l'assessorato all'Ambiente del Comune di Roma sta lavorando già da anni. Uno studio pazzesco, che ha suddiviso la capitale in 360 quadranti da 1 km quadro e ha sguinzagliato una cinquantina tra ricercatori e volontari alla ricerca di tutto ciò che ha la forma di vertebrato terrestre entro il confine del Gra. Tra qualche mese questa fotografia del territorio sarà pronta. Bruno Cignini, zoologo del Comune di Roma e gran maestro della fauna concittadina e della sua evoluzione, anticipa: «Era necessario fare il punto sull'evoluzione della presenza animale in città. Lo studio al quale stiamo lavorando ha confermato che nuove specie arrivate negli ultimi decenni hanno ormai consolidato la loro presenza in città e alcune di queste, è il caso ad esempio della testuggine d'acqua americana , è destinata a soppiantare la sua sorella italiana, l' emys , molto meno resistente. A Roma non stanno bene solo gli umani ma anche gli animali che trovano temperature calde, cibo in abbondanza e soprattutto aree protette, raddoppiate negli ultimi 10 anni».
E così tra i "clandestini" che non se ne vogliono più andare, oltre alla testuggine d'acqua americana presente da Villa Borghese all'Eur, si scopre che anche le nutrie , enormi roditori dai lunghi peli che abitavano in abbondanza Villa Pamphili fino a qualche tempo fa, arrivarono a Roma negli anni '30 per l'ansia di avere una pelliccia di castorino condivisa da molte signore romane e che, passata la moda, si erano diffuse dove potevano invadendo la villa e proliferando a più non posso fino ad un drastico intervento di contenimento. «Il principe assoluto di Villa Ada, invece, è il tamia - continua Cignini - lo scoiattolino siberiano riconoscibile dalla striatura sul dorso che si ritrova solo sulla via Salaria che ospita però anche il coniglio selvatico , probabile popolazione relitta del tempo in cui la villa era riserva di caccia, e la volpe , che da carnivora si è trasformata in onnivora e che abita anche Monte Mario, Villa Borghese e il Gianicolo».
Molte le presenze insospettabili, soprattutto tra gli anfibi. Tra queste il rospo smeraldino , molto più raro di quello comune, con lucenti macchie verdi sul dorso a caratterizzarlo, che si riproduce nelle zone umide di Villa Borghese, oltre al parco di Monte Mario, a villa Pamphili e nel Parco dell'Appia antica, e la raganella , la minuscola rana che si arrampica sulle foglie grazie alle ventose sotto le zampette e che è diffusissima nel parco dell'Appia, nell'area della Magliana Vecchia e alla Cervelletta. Ma la vera star rimane la salamandrina dagli occhiali . E' lei, italianissima al cento per cento, ma mai trovata prima a Roma, a costituire un unicum con la sua presenza ormai attestata nel parco dell'Insugherata. (Il Messaggero)

Nel Carso triestino il camoscio ha il suo balcone sul mare

Tutti al fianco di un imprevisto ma graditissimo ospite. Per metterlo a suo agio preoccupandosi di tutelarlo, rispettarlo e garantirgli un futuro su tutto il territorio carsico. Proseguirà anche nel 2005, per iniziativa della Provincia di Trieste, il 'Progetto camoscio' creato per la salvaguardia ed il ripopolamento nella Venezia Giulia di una specie animale che non è mai stata una tipica componente della fauna locale. Dal 1994, tuttavia, nella parte occidentale della provincia alabardata (e precisamente sul monte Hermada, nel territorio del comune di Duino Aurisina) si sono autonomamente stanziati tre soggetti: una femmina adulta, un maschio di 2-3 anni ed una femmina di 1 anno che, successivamente, hanno dato luogo ad una popolazione di circa 20 esemplari con cinque nascite accertate nel solo 2004.
A Fulvio Tamaro (assessore provinciale alle Politiche Ambientali, Agricoltura, Caccia, Pesca, Parchi, Polizia Ambientale e Comprensorio Montano) il compito di illustrare la seconda fase di un'iniziativa avviata (con la consulenza faunistica di Franco Perco, zoologo progettista) già nel 2003 dall'Ente di Palazzo Galatti con l'obiettivo di salvare dall'estinzione i pochi camosci presenti sul territorio e di favorirne l'insediamento.
La popolazione complessiva di questi animali attualmente presente in Italia è stata stimata intorno ai 124mila capi. Le consistenze più elevate si registrano nelle province autonome di Trento e Bolzano ma, soprattutto, in Piemonte dove vive il 62\% dei camosci alpini della penisola. Attualmente, la presenza nel Carso costiero triestino risulta alquanto destrutturata a causa di una notevole emigrazione dei maschi giovani.
«La prima fase del progetto - hanno sottolineato Tamaro e Perco, illustrando dati e mappe topografiche - ha analizzato la zona attualmente colonizzata nonché la consistenza attuale e la dinamica di popolazione. Con la seconda, è stata studiata la vocazionalità del territorio provinciale individuando alla fine sette ambiti idonei (i monti Hermada, Lanaro, Orsario, S. Primo, Grisa, Belvedere e Val Rosandra) che, seppur separati territorialmente, sono in continuità ambientale fra di lor».
Nei primi giorni di febbraio si procederà con il monitoraggio costante del nucleo mediante protocolli di osservazione standardizzati e censimenti accurati. Si procederà anche mediante una marcatura con radiocollari di alcuni soggetti, ai fini del monitoraggio degli spostamenti dei subadulti per testare le origini della popolazione. (Il Gazzettino)

Malghesi e pastori, sentinelle naturali dei parchi montani

A Montichiari un confronto a più voci sull’attività agroalimentare di montagna e sulle prospettive di sviluppo delle aree protette

«Esperienze per valorizzare la montagna ed il sistema dei parchi». Questo il tema dell’incontro tenutosi ieri a Montichiari nell’ambito di «Officine del Gusto». L’incipit dall’intervento di Alessandro Avogadri, presidente dell’«Associazione per la valorizzazione degli alpeggi» nata nel 1988: dal momento che alpeggi italiani sono solitamente localizzati nei parchi, allora «la necessaria manutenzione, la più economica e naturale dei territori montani» è proprio quella «attuata tramite il pascolo del bestiame». Malghesi e pastori - insomma - quali «sentinelle della natura» come li ha definiti Franco Nicoli Cristiani, assessore all’Ambiente della Regione Lombardia. «Queste persone sono un vero e proprio supporto al lavoro dei satelliti che di norma rilevano i disastri solo dopo il loro accadimento», ha sottolineato A. Avogadri, riferendosi al fenomeno delle alluvioni. Il punto è che questi piccoli allevatori, per non esser costretti a cessare la loro attività di manutenzione territoriale, devono poter continuare a produrre formaggi. Difficile, perchè non è possibile vendere il latte di montagna al prezzo di quello prodotto in pianura, dati i lunghi tempi e l’impegno richiesti. La gamma dei prodotti lattiero caseari, provenienti dalle alture, è vasta e diversificata per forma, peso e qualità organoelettriche, rendendo impensabile la scelta di una soluzione consortile: comporterebbe costi troppo onerosi a carico dei piccoli produttori ed ingiusti se a carico della collettività. Tre i passaggi fondamentali che devono essere attuati per sbrogliare la situazione secondo l’assessore Nicoli Cristiani: «Diffondere la necessità di tutelare la categoria dei pastori vaganti e dei malghesi. Individuare gli strumenti giusti, magari copiando le scelte azzeccate di alcune zone limitrofe, come il Trentino e la Svizzera, coniugando ambiente e territorio al turismo. Infine favorire la crescita di una nuova mentalità, per cui le regole della città vanno diversificate da quelle della montagna». Significative poi alcune testimonianze di chi opera nel settore, come quella di Cinzia Angiolini impegnata nella tutela e valorizzazione della pecora autoctona e dell’agnello di Zeri, razza dalla carne pregiata, tipica della Toscana, ormai in via d’estinzione (al mondo ne sono rimaste solo 2.500). La partecipazione al convegno non è stata massiccia ma i diretti interessati si dicono comunque soddisfatti: «Essere presenti ad un evento importante come Aliment è già un buon traguardo». (Giornale di Brescia)

Turismo ecologico, Campania all’avanguardia

Ma dove vanno i turisti che vogliono riposare e allo stesso tempo dare una mano all’ambiente? Prima di tutto in Campania. È il risultato di uno studio promosso da Legambiente, che piazza la regione ai primi posti in Italia tra i luoghi preferiti dagli ecoturisti, assieme a Sicilia, Toscana, Trentino Alto Adige, Friuli, Lazio e Sardegna. Ma partiamo dall’inizio. In principio fu l’agriturismo, un modo di fare vacanza via dalla pazza folla, a contatto con la natura e con la cucina contadina. Ma il boom delle ferie campagnole (legato anche al prezzo relativamente accessibile), ha imposto una riflessione. Se l’agriturismo si affolla di clienti che consumano (acqua, elettricità) e producono rifiuti, quale sarà l’impatto sull’ambiente? Il risultato della riflessione è la nascita dell’ecoturismo, dove al tuffo dove il verde è più verde si affianca l’attenzione per l’ambiente: raccolta differenziata, alimentazione biologica, niente spreco di acqua e corrente elettrica, partecipazione alla cura degli orti e alla preparazione di conserve e spostamenti in bicicletta al posto delle tradizionali navette. In Campania l’attenzione dei turisti verdi è essenzialmente rivolta ai Parchi e alle riserve naturali dal Vesuvio al Partenio, dal Matese al Cilento. E a proposito di Cilento. A quest’area spetta un primato nel primato: è quella che in assoluto è meglio attrezzata per le visite alle aree protette. (Il Mattino)

Faccia a faccia tra Matteoli e Soru

Gennargentu

Il futuro del parco del Gennargentu sarà mercoledì a Roma al centro di un incontro tra il ministro dell'Ambiente Altero Matteoli e il presidente della Regione, Renato Soru. L'occasione, anche dopo le polemiche dei giorni scorsi, per valutare i percorsi da seguire per trovare una soluzione che tenga in considerazione la volontà delle comunità locali. Il punto di partenza sarà la legge nazionale 394 che, nel 1991, istituì tra i tanti, anche il parco nazionale del Gennargentu, del Golfo di Orosei e dell'Asinara. Il Consiglio regionale, nei giorni scorsi, partendo da una mozione presentata dal centrodestra - primo firmatario Roberto Capelli dell'Udc - ha votato quasi all'unanimità un ordine del giorno per ottenere il superamento dei vincoli del decreto Ronchi che, nel '98, aveva dato attuazione alla 394. Intervenendo in aula, l'assessore dell'Ambiente Tonino Dessì ha chiesto «un supporto politico al Consiglio per risolvere la questione del parco. Noi vogliamo avere la gestione, siamo contrari a un parco a valenza ministeriale, non ad uno di rilevanza nazionale». Parlando in Consiglio della mancata convocazione, mercoledì scorso a Roma, da parte di Matteoli, il presidente della Giunta ha parlato di «incidente chiuso. Si lavora per il bene comune confermando che i parchi non sono un problema ma un'opportunità». Il 12 gennaio il ministro dell'Ambiente aveva incontrato una delegazione di sindaci dei Comuni del Gennargentu (con molte defezioni tra gli amministratori del centrosinistra). I sindaci di Comuni di Gairo, Tonara, Belvì, Arzana, Urzulei, Villagrande, Talana, Aritzo e Desulo si sono detti soddisfatti per l'impegno preso da Matteoli di portare all'attenzione del Consiglio dei ministri, forse venerdì, la sospensione dei vincoli sino al 31 dicembre 2005. (L'Unione Sarda)

«Noi ranger a guardia del Parco La legge? Dobbiamo farla rispettare»

Una giornata con i Forestali che vigilano sul Gennargentu: siamo rigorosi ma tentiamo di ascoltare sempre il parere di tutti

L'ultima domenica di caccia grossa inizia presto, prestissimo sotto un cielo terso, stellato che neanche ci fossero tutti i megawatt dell'Enel a illuminarlo. Un caleidoscopio di stelle fa rabbrividire l'anima più del freddo le gambe. Non c'è imbottitura o Goretex che tenga in queste gelido mattino aritzese. Sono le cinque e il paese dorme, annegato nel buio. Ma lui è già in strada. Zainetto azzurro su un giubbotto dall'improbabilissima tenuta termica, Totore Manca cammina imperterrito lungo la via Kennedy per andare dalle sue bestie che lo aspettano in campagna. «Lo fa tutti i giorni, rigorosamente a piedi: dieci chilometri ad andare e altrettanti a tornare», spiega l'ispettore Giampiero Cara, comandante della Stazione del Corpo Forestale. I suoi uomini scaldano i motori per una missione molto particolare. Ufficialmente bisogna far da angeli custodi ai mufloni, illustrissimi inquilini delle cime innevate del Gennargentu. A volte che qualcuno non li scambi per cinghiali e gli sfugga un pallettone. Ma c'è da assolvere un altro compito ad altissimo tasso di diplomazia: far rispettare il divieto di caccia dentro i confini del Parco Nazionale senza esasperare gli animi dei signori della doppietta. Operazione impegnativa tanto che scendono in campo anche i ranger di Isili, Tonara e Laconi. Nei quattromila ettari da presidiare, la strategia sarà rigorosa ma soft . Si gioca d'anticipo sui cacciatori e prima delle sei una pattuglia si piazza al bivio di Scusazzu per Tascusì, porta d'ingresso al Gennargentu per chi arriva dal Campidano. «Distribuiremo le mappe, invitando a effettuare le battute nelle zone consentite». Per chi non capirà o farà finta di non capire, ci sono le vedette appostate in punti strategici e collegate via radio con le squadre mobili. Le carte sono in scala 1 a 25 mila e i confini tracciati a pennarello lasciano un margine di incertezza di una cinquantina di metri reali: «Nessun problema, la nostra tolleranza può arrivare anche a 200. Ma senza esagerare», spiega Cara, consapevole che sull'ambiguità delle mappe i cacciatori costruiscono l'alibi per lo sconfinamento. Si parte per Tascusì imboccando una strada imbuto che si restringe in una striscia sempre più sottile immersa tra castagni e roverelle. A Genna e Crobu il termometro segna meno dieci e il ghiaccio fa annaspare il fuoristrada. Qualche sbandatina ma chi è al volante sa che fare. Si sale verso Sa Minna, quota 1500 metri, sotto Punta Lamarmora, l'Everest della Sardegna. In lontananza si intravedono le luci tenui di Desulo e, in alto, la Madonnina illuminata del passo di Tascusì. La radio informa che i primi cacciatori in arrivo sono stati informati e, disciplinatamente, hanno assicurato il rispetto dei limiti. Finché si scantona in prossimità ai margini dell'area protetta il rischio è un richiamo a non allargarsi troppo. Un po' di sana elasticità non guasta ed è quasi d'obbligo in tempi di sommosse antiparco in nome della libertà di grilletto. Ma se qualcuno decidesse di esagerare, addentrandosi dove neanche un cieco può credere di essere in territorio di caccia, rischia il sequestro del fucile, delle munizioni, dei capi abbattuti e la denuncia alla magistratura. In realtà, però, ha già la grazia in tasca. Se il ministro Matteoli terrà fede alle sue promesse e sospenderà i vincoli per tutto il 2005, il reato decadrà senza lasciar traccia alcuna. I trasgressori, insomma, sono prosciolti a priori. «Le leggi le fa il Parlamento, noi abbiamo solo il dovere di farle rispettare», commenta un agente. Oggi si spara anche a tutta la selvaggina migratoria, tordi, colombacci e altro. La preda ambita, però, è il cinghiale. Le compagnie sono già schierate come confermano le auto parcheggiate lungo la carreggiata e l'abbaiare dei cani. Svoltando a destra, lungo una strada bianca si va verso Sa Minna. Davanti c'è Funtana Cungiada, la neviera degli aritzesi, dove in grandi buche esposte a nord si conservava la neve, compressa e coperta con la paglia, per poi andarla a riprendere in estate quando serviva per fare la carapigna, il gelato tradizionale della Barbagia prima dell'arrivo dei frigoriferi. Poco dopo l'alba, al valico di Goddetorgiu, primo incontro ravvicinato con i cacciatori della compagnia di Desulo guidati da Piero Liori: «Tranquillo ispettore, staremo fuori dal Parco». Lungo strada un altro schieramento di uomini e cani, guidato da Antonio Locci che chiede chiarimenti, non per tergiversare ma proprio perché non sa bene se può o non può spingersi a Girgini. Pietrino Basciu, classe 1938, saluta Cara più che cordialmente e viene adeguatamente ricambiato: «Questo signore è uno serio. Una volta ero appostato dietro di lui e lo osservavo. Gli è passato davanti un branco di mufloni ed è stato come se non esistessero: fermo era, fermo è rimasto», racconta l'ispettore. «E ci mancherebbe che sparassi ai mufloni», replica Basciu. Roberto Calaresu guarda il capo dei forestali di Aritzo, sorride e va con i ricordi. «Nel '94 ci ha sequestrato tre cinghiali, le armi e abbiamo dovuto pagare un sacco di soldi. Malu è ma persona per bene. Peggio per noi che avevano sparato a pallettoni, infischiandocene della legge». E via con un goccio di acquavite in onore al passato e al futuro nell'eterno gioco a banditi e carabinieri. Senza rancori, però. Almeno da queste parti, dove il clima incandescente dell'Ogliastra e di altri angoli di Barbagia sembra lontano anni luce. Qualche chilometro più in là è appostata la compagnia di Aritzo. Il capo caccia, Armando Meloni, esordisce con ironia: «Finora non c'è nessuno da arrestare». Poi si fa serio e spiega la posizione sua e dei compagni: «Non condividiamo le norme ma le rispettiamo comunque». Stretta di mano e arrivederci. «Con la gente bisogna parlare, spiegare. Chi non la fa commette una grandissima fesseria», osserva Cara. I fatti sembrano dargli ragione visto che rispetta ed è rispettato. Nel frattempo, due pattuglie sono in difficoltà vicino a Funtana Cungiada: «Il Suzuki e la Panda si sono piantate nella neve e non si riesce a farle andare né avanti né indietro». Via radio si aggiorna costantemente la situazione. «Sotto punta Lamarmora tutto è a posto», rassicura Antonello Paba, comandante della stazione di Tonara. Dalla centrale operativa rilanciano la segnalazione di una vedetta appostata a Punta Lastria che chiede di verificare se una compagine di uomini in armi è dentro o fuori la zona interdetta. Un quarto d'ora e arriva la risposta: «Sono in area libera». Il sole è alto e finora la mattinata è andata liscia come l'olio. Pausa caffè al rifugio Su Filariu sul versante desulese del Bruncuspina. Il gestore Pino Puddu è un ambientalista convinto per vocazione e per calcolo. «Io amo questa vita, sto qui con la mia famiglia e non me ne andrei per niente al mondo. Se sono favorevole al Parco, però, è anche perché credo che sia l'unica carta che possiamo giocarci. Quando finiranno i contributi europei, voglio vedere chi continuerà ad allevare bestiame». Nel frattempo accoglie i gitanti in arrivo proponendo escursioni a cavallo o un buon pranzo con maialetto arrosto e altre specialità della casa. Attorno al rifugio, conigli nani e galline in libertà. «Ai bambini piacciono tantissimo». Chi vuole può osservare con i binocoli i mufloni che ne stanno tranquilli nella vallata del rio Arattu. Oppure divertirsi con lo slittino. C'è anche un piccolo impianto di risalita ma è guasto. Cara e i suoi uomini salutano e risalgono sul pick-up per riprendere i controlli. La neve luccica sotto i raggi del sole, a nord est una macchia azzurra, un pezzetto di cielo precipitato tra i monti di Barbagia: è il lago di Gusana. Serenamente piatto, come questa ultima domenica di caccia grossa. Dopo il tramonto i ranger tornano a casa. Non è successo niente. Meglio così. Per tutti. (L'Unione Sarda)

Torna a volare il Gipeto, la leggenda alata delle Alpi

Prealpi Giulie

Il ritorno del Gipeto rappresenta la realizzazione di un ambizioso progetto che, dopo decenni di lavoro, ha consentito di riportare questo leggendario avvoltoio sulla catena alpina. Si tratta di uno degli uccelli europei di maggiori dimensioni, con particolari caratteristiche ecologiche ed un aspetto del tutto singolare che ne hanno fatto da sempre un animale mitico, entrato nella storia e nella leggenda delle popolazioni alpine. Il Gipeto si nutre in gran parte delle ossa delle carcasse di mammiferi, tuttavia le credenze popolari, a seguito di una errata interpretazione del suo ruolo ecologico, hanno portato a sistematiche persecuzioni che ne hanno determinato l'estinzione sulle Alpi circa un secolo fa, con una popolazione europea attualmente ridotta a consistenze bassissime e confinata a poche zone dell'antico areale di distribuzione (Pirenei. Corsica, Creta).
Il progetto di reintroduzione, avviato negli anni '70, ha seguito particolari metodologie, basate in particolare sulla decisione di non catturare alcun soggetto in libertà ma di utilizzare quei pochi individui presenti a quel tempo negli zoo europei, farli riprodurre e successivamente liberare i giovani nati. Un progetto del tutto originale, considerate le scarse esperienze precedenti e le difficoltà di far nidificare esemplari vecchi e tenuti per lunghi periodi in gabbia. Ma i risultati ottenuti in alcuni centri, quale l'Alpenzoo di Innsbruck, e soprattutto le tecniche messe a punto dal principale artefice dell'iniziativa, Hans Frey dell'Università di Vienna, hanno consentito di raggiungere importanti traguardi con l'allevamento in cattività, creando un buon numero di coppie in grado di riprodursi in una trentina di zoo sparsi in tutto il mondo. I giovani nati, inizialmente utilizzati per la riproduzione, sono stati successivamente in parte liberati a partire dal 1986. La prima liberazione stata effettuata sugli Alti Tauri austriaci, poi si è iniziato in Francia, in Svizzera e in Italia. Ogni anno sono stati liberati 6-10 uccelli per un totale che oramai ammonta a 140 individui. Vengono posti in un nido, solitamente in numero di due, quando non sanno ancora volare e senza la presenza dei genitori; dopo circa 3-4 settimane prendono il volo ed iniziano ad esplorare le aree circostanti, aiutati dai ricercatori solamente nel primo mese per il reperimento del cibo.
Diciannove anni di rilasci hanno fornito moltissimi dati eco-etologici sulla specie. I giovani dopo appena 1-2 mesi dall'involo iniziano a compiere spostamenti che possono interessare l'intero arco alpino. Capita normalmente, ad esempio, che gipeti liberati in Austria si spostino in Francia e viceversa. I primi anni compiono quindi erratismi su grandi distanze fino a che si scelgono un'area e formano delle coppie territoriali. Sono fasi lunghe, che richiedono anni, considerato che il Gipeto inizia a riprodursi dopo i sette anni di età. I risultati sono pienamente soddisfacenti ed hanno evidenziato una mortalità molto bassa degli individui liberati. Fino ad ora sono state accertate 15 perdite, legate in gran parte ad abbattimenti illegali (fattore che purtroppo rappresenta ancora il maggior pericolo in certe aree), collisioni contro cavi e slavine. Verso la metà degli anni '90 le prime coppie hanno raggiunto l'età adulta compiendo i primi tentativi di nidificazione. Finalmente nel 1997 nasce e si invola il primo giovane in Francia. Un grande successo, che prosegue negli anni successivi con la formazione di nuove coppie e nuovi nati. Ben tre coppie si formano nel Parco nazionale dello Stelvio. Di anno in anno aumentano i territori occupati e gli uccelli manifestano una chiara preferenza per le grandi aree protette alpine, dove trovano buone potenzialità alimentari e maggiori forme di tutela. Attualmente sono ben 17 i territori occupati da coppie di questa specie sulle Alpi, in gran parte localizzati sulle Alpi occidentali, 4-5 su quelle centrali ed uno su quelle orientali austriache. Venti giovani si sono già involati e la popolazione totale ammonta ad almeno 100 individui. Nella regione Friuli-Venezia Giulia il Gipeto è stato osservato in 4-5 occasioni (Costiera triestina nel 1989, Canin nel 1994, Parco Dolomiti Friulane nel 2003, Gruppo Coglians nel 2004, altre 1-2 da verificare nel tarvisiano tra il 1991 e il 1992). L'aumento della popolazione alpina sta comunque portando ad una maggiore frequentazione anche nel settore orientale, con risultati di estremo interesse scientifico, conservazionistico e turistico. Quello che si dobbiamo fare per aiutare questo avvoltoio, nell'ambito di iniziative comuni coordinate a livello europeo, è quello di garantire forme concrete di tutela, avviare sistemi più efficaci di controllo e monitoraggio e, obiettivo importante per molti aspetti ma non ancora raggiunto se non in alcune aree, consentire un aumento generale delle popolazioni di ungulati selvatici. Gli avvoltoi, che si trovano notoriamente all'apice delle catene alimentari, sono infatti "indicatori ecologici" la cui presenza è legata ad una buona gestione del territorio e del patrimonio faunistico in particolare. (Il Gazzettino)


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