Logo Parco Nazionale del Gargano

Parco del Conero



Nel Parco c'è
  Notiziario Ufficiale del Parco del Conero
Anno IX - Numero 6 - Settembre 2003






ITALIA E BOSNIA ERZEGOVINA

La conferenza dei destini incrociati - Sarajevo 24 - 25 Luglio 2003

Al ritorno nel parco del Conero, con due confortevoli voli Austrian Airlines Sarajevo Vienna e Vienna Roma, ed il solito scalcinato volo Alitalia Roma Ancona, guardo le carte raccolte nel corso della Conferenza delle aree naturali protette bosniache e italiane che mi sono rimaste in borsa. C’è un bel libro, illustratissimo, di Cedomil Silic, sulla flora dei parchi bosniaci. In copertina c’è una Campanula hercegovina, un Lilium cattaniae, una Asyneuma canescens ed una Aquilegia dinarica. Non sono un botanico, ma solo un giornalista prestato all’amministrazione delle aree protette, ma questo già basta per intuire nei nomi latini i destini incrociati delle diverse sponde dell’Adriatico. Quel libro mi è stato consegnato dopo una cena al ristorante del Golf Club di Sarajevo. Tra le pagine è rimasto il menu: brodo di pollo, cipolla ripiena di carne, torta rustica con spinaci e formaggio, arrosto di vitello, insalata mista, prugne con noci. Ma quel foglietto volante del menu mi ricorda altre cose: la strada che saliva verso il crinale, l’enorme biancore di un cimitero che alla prima occhiata mi era sembrato una grande cava di marmo, per poi rivelare uno degli aspetti più agghiaccianti del dopoguerra bosniaco; ma a tavola, nell’elegante edificio di recentissima costruzione, i dirigenti dei tre parchi nazionali non davano spazio ai rimpianti e al dolore.
Nelle carte che ho conservato c’è un fascicolo scritto in bosniaco, in inglese e in italiano, che illustra tre progetti: Nuovo approccio ai parchi nazionali della Bosnia Erzegovina, La protezione antincendio nel parco nazionale Kozara e Foto safari in Kozara. Nel primo si quantificano costi e benefici di un lavoro di riconversione degli obbiettivi e dei comportamenti gestionali, volto anche alla promozione della collaborazione con altre comunità, e comprendente la creazione di partnariati, la promozione dell’utile economico, la formazione del personale dipendente dal parco, l’educazione dei residenti. Nella tabella che riassume le previsioni economiche figura la dizione viaggi di studio nei paesi delle buone pratiche (che sarebbe il nostro paese), sostegno dei media, promozione dell’eco turismo, aggiornamento dell’attuale piano do organizzazione territoriale del parco. Gli altri due progetti sono chiari già dai titoli.
Questi ed altri progetti, al centro delle conversazioni serali attorno ai tavoli del Golf Club, erano stati dettagliatamente illustrati nel salone dell’Holiday Inn in via Zmaja od Bosne, 4, l’albergo appena sfiorato dalle pallottole della guerra e non toccato dalle cannonate in quanto sede di tutta la stampa internazionale. A pochissima distanza in linea d’aria il palazzo del governo è un groviera di occhiaie vuote e annerite dalle cannonate, e anche oggi testimonia al mondo la durezza dello scontro che si è svolto qui, strada per strada, crinale per crinale. Affacciandoci alla terrazza del golf club, abbiamo visto attorno ai boschetti i cartelli di pericolo di mine. E quando un bosniaco nel corso dei lavori della Conferenza ha presentato un progetto che si chiama Sminamento e agricoltura biologica nessuno si è meravigliato. Questa presenza continua del peso del recente passato, e questo ricordo oggettivo dei problemi da superare insieme ha tolto alla prima conferenza sulle aree protette bosniache e italiane ogni rischio di frivolezza e di turismo congressuale, convincendo proprio tutti della assoluta necessità di mettersi nelle condizioni di capire il da farsi per rendere molto produttivo l’incontro. Se mai è esistito un incontro internazionale privo di cadute di attenzione, o di fuga dei partecipanti, questo è stato l’incontro di Sarajevo. E se mai è esistito un tavolo internazionale che non si è limitato a elencare i problemi, ma ha proposto soluzioni, questo è stato il tavolo di Sarajevo che ha messo nero su bianco, nella dichiarazione conclusiva, l’impegno di incrociare i comuni destini di sviluppo sostenibile dei parchi che hanno l’Adriatico come bacino comune e come radice, e l’Europa come destino futuro e come identità complessiva.
Perché è esattamente questo che abbiamo verificato nella due giorni di conferenza. Che abbiamo radici comuni. Che davvero vogliamo mettere mano ad un comune sviluppo sostenibile a partire dalle esperienze delle aree protette, e a partire dalla rete ecologica, dalle nuove idee sulla classificazione, e dai progetti di sistema e di area vasta che muovono già i loro primi passi in Italia. Sarebbe contrario allo spirito che si è respirato nei due giorni della conferenza mettersi ad elencare i bravi, quelli che hanno reso possibile più di altri questo appuntamento, e che lo hanno reso efficace e produttivo. Tuttavia faremmo un torto eguale e contrario alla possibilità di proseguire il lavoro avviato se non avessimo la consapevolezza che senza due ministeri italiani (l’Ambiente e gli Esteri) senza i rispettivi ministeri bosniaci, senza Federparchi e senza il coordinamento dei parchi bosniaci, e senza il tramite di Legambiente, e di Compagnia dei parchi quello che oggi è un grosso risultato all’attivo non si sarebbe potuto realizzare. Questa osservazione non significa che sia stata irrilevante, o aggiuntiva, la presenza di moltissimi altri soggetti pubblici e privati che hanno rappresentato la polpa dell’evento di Sarajevo. Cito veramente a caso: l’unione delle comunità montane italiane, l’unione delle province italiane, i rappresentanti della commissione dell’Unione europea, dell’Unesco, della Banca mondiale, delle associazioni non governative, e certamente ho dimenticato molti facendo qualche gaffe. Ma questo non è un comunicato ufficiale, né un commento formale. È solo il mio ricordo, e spero che nessuno si offenderà. Nonostante il clima di assoluta e concentrata attenzione, siamo anche riusciti a mettere il naso nella città vecchia, nei pochissimi momenti di pausa che pure il programma feroce aveva previsti. Per le strade del centro, nel sole di fine Luglio, Sarajevo nasconde bene le sue ferite e mette in campo tutta la sua volontà di rinascita.
Il mercato che tutto il mondo ha visto in televisione pieno di feriti mitragliati dai cecchini è oggi un tranquillo mercato vicino ad un posteggio di taxi e dietro la cattedrale cattolica. Più avanti si allunga tra negozi e uffici la via del maresciallo Tito, mentre dalla parte opposta si incontra l’eredità ottomana, la realtà della grande moschea, dei minareti, del mercato dove alle merci di sempre (l’intramontabile bricco del caffè alla turca) si uniscono nuovi oggetti, come una matrioska che raffigura l’ex presidente Bill Clinton, con dentro la Lewinski, e poi sua moglie e poi sua figlia, oppure i bossoli di ottone dei proiettili, lavorati a sbalzo e messi in vendita assieme agli strumenti musicali, alle scacchiere, alle chicchere e piattini. Quello che colpisce non è tanto la confusa mescolanza di occidente e di oriente, di islam e di ortodossia. Per fortuna ancora c’è quello che c’è stato sempre. E a me non fanno impressione neppure le tute mimetiche dei corpi speciali che pattugliano ogni angolo. Quello che mi colpisce di più è l’età molto giovane della popolazione, e l’apparente prevalenza di ragazzine sui ragazzi. Che si spiega, ma il concetto è duro da digerire. Sempre che il dato sia vero, e non sia una superfetazione ideologica. Un mio voler vedere cose lacrimevoli che nella realtà non esistono.
Fotografo un ragazzino che gioca con un piccione, un altro che beve l’acqua nel cortile della moschea, a piedi scalzi.
Poco lontano dalla moschea e dal piccolo cimitero ottomano con i turbanti scolpiti in cima alle lapidi e un giro di tavoli e di bar vedo e fotografo una Pasticceria e prodotti da forno inequivocabilmente italiana, in piena Fehradija, tra il maresciallo Tito e la Bascarcsija. Di fronte alla ricca pasticceria italiana c’è un dignitoso baracchino ambulante che vende palacinke cotte e mangiabili. Questa foto mi sembra una metafora, ma non voglio esplicitarla, perché niente è come sembra, e perfino questa sciocca idea che i parchi italiani abbiano molto da insegnare e poco da imparare nel confronto con le realtà bosniache va curata come una malattia grave, perché la chiave giusta di lettura di quanto si comincia a fare è il percorso dei destini incrociati, dove le nuove identità saranno il frutto delle culture che saremo in grado di esprimere (invece di appiccicare i nostri ritardi culturali a quelli degli altri, come potrebbe perfino succedere), e delle nuove koinè che saremo in grado di rimettere in piedi a partire dalle nuove esigenze che avvertiamo assieme, lo sviluppo durevole e sostenibile, certo, ma anche le identità e le radici che più sono solide e meglio di diventa davvero e dignitosamente europei.
Se è questa la sfida, se è questa la prospettiva, allora è molto stupido immaginarci professori di buone pratiche che hanno solo da salire in cattedra per erudire il pupo balcanico onde aiutarlo a ripulirsi e pettinarsi per poter entrare in società. Molto al contrario abbiamo un bisogno identico di frequentarci per conoscere analogie e differenze nelle culture profonde, per sapere a quale famiglia appartengono le donne e gli uomini che frequentano l’Adriatico e lo jonio come il ponte che li collega, senza tuttavia conoscersi, e molto spesso diffidando molto gli uni degli altri.
Tuttavia le cose si muovono anche nella giusta direzione.

Mariano Guzzini