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Punti di Interesse nel Chivassese


Presa del Canale Cavour a Chivasso

La Presa del Canale Cavour a Chivasso
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La Presa del Canale Cavour a Chivasso
Il monumentale piano inferiore della Presa del Canale Cavour a Chivasso
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Il monumentale piano inferiore della Presa del Canale Cavour a Chivasso
Lapide commemorativa sul muro esterno della Presa del Canale Cavour
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Lapide commemorativa sul muro esterno della Presa del Canale Cavour
Il Canale Cavour a Saluggia
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Il Canale Cavour a Saluggia, nel punto in cui riceve (a destra) le fredde e cerulee acque della Dora Baltea, trasportate dal Canale Farini, che qui termina confluendo dentro il Cavour. Si noti il differente colore delle acque di Po e Dora
L'edificio di Presa del Canale Cavour dal Po è senza dubbio il manufatto più importante ed anche il più significativo, quasi il simbolo, dell'intero canale.
Il Canale Cavour costituisce una sorta di "spina dorsale" di un'estesa rete di canali che ha consentito la trasformazione e lo sviluppo di un vasto territorio, dell'estensione di circa 300.000 ettari, compreso fra i fiumi Dora Baltea, Ticino e Po. Realizzato tra il 1863 ed il 1866 dal giovane Regno d'Italia, il Canale Cavour prende il nome dal conte Camillo Benso di Cavour, che può essere considerato il promotore di questa grande opera pubblica. Il canale ha origine dal fiume Po a Chivasso. A Saluggia il canale sovrapassa la Dora Baltea mediante un imponente ponte canale ad arcate in mattoni e poco dopo viene integrato con le acque della Dora Baltea, trasportate dal Canale Farini. Quindi attraversa tutta la pianura vercellese con andamento da sud-ovest verso nord-est. In Comune di Greggio il Canale Cavour sottopassa il fiume Sesia mediante una ingegneristica tombatura ed entra nel territorio novarese, dove riceve ulteriori acque captate dal Ticino, mediante il Canale Regina Elena, costruito nel 1954. Il Canale termina il suo corso dopo 85 chilometri con uno scaricatore nel fiume Ticino in comune di Galliate. La portata massima del Canale Cavour è di 110 m3/s all'imbocco e 85 m3/s ad est del fiume Sesia, superiore a molti fiumi padani.
Il primo progetto di un grandioso canale che irrigasse la pianura vercellese fu inizialmente presentato dall'agrimensore vercellese Francesco Rossi tra il 1842 ed il 1846. Tale canale avrebbe dovuto avere origine dal Po all'altezza di Crescentino. Il primo progetto fu abbandonato, ma l'idea fu mantenuta ed infatti l'opera fu successivamente riprogettata dall'ispettore delle Finanze ingegner Carlo Noè nel 1852, per incarico del conte Camillo Cavour, al tempo Presidente del Consiglio dei Ministri del governo piemontese. Il progetto di Carlo Noè prevedeva la nascita del canale molto più a monte, a Chivasso, per consentire in tal modo al canale di irrigare una porzione molto più vasta di pianura, comprendente anche il medio Vercellese, il Novarese e la Lomellina, anche se ciò avrebbe complicato la progettazione dell'opera, dovendosi attraversare due grandi fiumi, la Dora Baltea ed il Sesia. Il progetto di Carlo Noè fu approvato dal Parlamento Italiano nel 1862, ma già nel 1859 gli studi del Noè furono utilizzati per fermare l'avanzata delle truppe austriache, allagando strategicamente la pianura vercellese.
I lavori di costruzione del canale ebbero inizio nel 1863, dopo la proclamazione del Regno d'Italia e quando Cavour era già morto, su impulso dei ministri Quintino Sella e Gioacchino Pepoli. Nonostante le difficoltà incontrate, dovute in particolare ai numerosissimi manufatti che si dovettero costruire, i lavori, affidati ad una società di capitali inglese, si conclusero già nel 1866, dopo meno di tre anni dal loro inizio. Il Canale Cavour è un'opera che desta meraviglia sia per la rapidità di costruzione, sia per la perfezione costruttiva ottenuta impiegando solo mattoni e pietre. Oggi, nonostante l'evoluzione tecnologica, un'opera simile richiederebbe certamente tempi più lunghi: basti pensare che per gli attraversamenti di strade e corsi d'acqua furono costruiti ben 101 ponti, 210 sifoni e 62 ponti-canale. Si può affermare senza dubbio che il canale Cavour fu, per parecchi decenni, il fiore all'occhiello dell'ingegneria idraulica italiana ed europea e rimane ancora oggi la più grande opera di ingegneria idraulica mai compiuta in Italia.
Il Canale Cavour capta le sue acque dal Po, convogliate nella bocca di presa mediante la traversa di Chivasso, lunga 470 metri. La bocca di presa dal fiume Po è situata sulla sponda sinistra del fiume, a circa 400 metri a valle del ponte stradale che collega Chivasso con la collina. La bocca di presa, larga sul fondo 40 metri, è pavimentata per i primi 460 metri con ciottoloni e calcestruzzo e per gli ultimi 40 metri, più vicino all'edificio di presa, con lastroni di pietra e calcestruzzo. La bocca di presa è delimitata da alti muraglioni (m. 8, con sottomurazioni di m. 4,90), che si elevano di m. 0,80 oltre il livello massimo delle piene del Po.
Il vero è proprio edificio di presa, detto anche chiavica di imbocco, è a due piani ed è lungo quanto è largo il canale, cioè 40 metri, è largo 8 metri ed è diviso in 21 luci da 1 metro e 50, ripetute in due ordini sovrapposti per un'altezza complessiva di m 7,50. Le luci sono costituite da stipiti in pietra viva strutturati in modo da contenere tre ordini di paratoie, due utilizzati per il normale servizio di regolazione delle acque ed il terzo, sussidiario, che funziona solo in caso di necessità di riparazioni o manutenzioni ai primi due. Le paratoie si regolavano con appositi meccanismi manuali, azionati da personale che si collocava nella galleria coperta, altra oltre 4 metri e situata nella parte superiore dell'edificio. Attualmente i meccanismi manuali sono statati elettrificati. Oltre la chiavica di presa il letto del canale è lastricato per altri 15 metri lungo l'asta del canale.
I manufatti dell'imbocco sono completati da due canali scaricatori. Il primo, derivato in sponda destra del canale all'inizio dell'incile, è destinato a tenere sgombro l'edificio dai materiali galleggianti e tronchi che provengono dal fiume in caso di piena; il secondo, sempre in sponda destra ma immediatamente prima dell'edificio della chiavica ha lo scopo di permettere l'allontanamento delle acque del Po in esubero oltre la quantità necessaria da derivare.
Per ricordare nel tempo il progettista del Canale Cavour, il 16 ottobre 1898 fu inaugurato un monumento a Carlo Noè, eseguito dallo scultore Francesco Porzio e collocato sul piazzale a ponente dell'opera di presa.
L'edificio ed il sistema di canali ad esso collegati del Vercellese, del Novarese e del Pavese, fino al 1977 furono gestiti dall'Amministrazione Generale dei Canali Demaniali d'Irrigazione, attraverso la concessione temporanea dei canali stessi ai Consorzi Est Sesia di Novara ed Ovest Sesia di Vercelli, che riuniscono gli utilizzatori finali delle acque in qualunque modo derivate dal Canale Cavour. La legge n. 984 del 27/12/1977 (detta legge "quadrifoglio") sancì il trasferimento dei canali demaniali alle Regioni Piemonte e Lombardia e la contestuale e definitiva consegna degli stessi ai Consorzi degli utenti. Per la gestione del primo tronco del canale Cavour e di altri canali di interesse comune dei Consorzi Est ed Ovest Sesia, è stata costituita dai due enti la Coutenza Canali Cavour, con sede legale a Vercelli e sede amministrativa a Novara, che ora si occupa di tutte le incombenze tecniche, amministrative e gestionali relative anche all'edificio di imbocco.
Insieme ai canali, a seguito della legge del '77 sono stati consegnati anche i documenti, di grande interesse storico, che testimoniano l'origine e lo sviluppo di questo particolare settore dell'attività statale che riguarda le irrigazioni piemontesi. L'ingente massa cartacea ed i disegni sono ora consultabili da parte del pubblico e costituiscono l'Archivio Storico dei Canali Cavour, di proprietà della Coutenza Canali Cavour, ospitato a Novara nel palazzo dell'Archivio Storico delle Acque e delle Terre irrigue dell'Associazione Irrigazione Est Sesia.

L'edificio di presa del Canale Cavour è proprietà della Coutenza Canali Cavour (Novara, Tel. 0321675211) e pertanto, all'infuori di speciali occasioni, è visibile al pubblico soltanto dall'esterno.

Per approfondimenti:
Borgia Massimiliano (cur.), Le risaie del Vercellese, guida al paesaggio, alla storia, alla natura delle terre d'acqua, G.S. Editrice - Regione Piemonte, Asti, 2003.

Duomo di Santa Maria Assunta a Chivasso

Il duomo di Chivass
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Il duomo di Chivasso

Particolare della ghimberga maggiore del portale del duomo di Chivasso
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Particolare della ghimberga maggiore del portale del duomo di Chivasso
Abitualmente chiamata dai chivassesi "il duomo", in realtà la principale chiesa della città, S. Maria Assunta, in piazza della Repubblica, ha la qualifica - concessa dal vescovo d'Ivrea monsignor Luigi Bettazzi nel 1996 - di "insigne collegiata", ovvero di antica ed illustre sede di un capitolo di canonici e non è, dunque, un duomo. La prima chiesa collegiata di Chivasso sorgeva nel borgo occidentale di San Pietro, primo nucleo dell'abitato, ed era dedicata al Principe degli Apostoli. La costruzione dell'attuale chiesa di Santa Maria Assunta o, per rispettare la più antica intitolazione, dei Santi Maria e Pietro, fu iniziata nel 1415 per volontà del marchese di Monferrato Teodoro II Paleologo, che a Chivasso aveva la principale sede della propria corte. Proprio per questo motivo il nuovo tempio fu costruito di fronte al castello marchionale, al di là di uno spiazzo, origine dell'attuale piazza della Repubblica, nel quale avevano luogo mercati e cerimonie di vario genere. Il successore di Teodoro II, Gian Giacomo, che governò il Monferrato dal 1418 al 1445, si trovò tuttavia, già dal 1425, nell'impossibilità di finanziare il proseguimento dei lavori della chiesa, perché gravato dalle spese causate dalla guerra contro il duca di Milano. Della continuazione dei lavori dovette così farsi carico l'amministrazione comunale, che allora si chiamava "Credenza", e particolarmente utile si rivelò l'aiuto finanziario della nobile famiglia locale degli Isola. Il tempio, benché incompiuto, fu consacrato nel 1429 dal vescovo d'Ivrea Giacomo de Pomariis. L'effettivo trasferimento del prevosto e del capitolo dei canonici dall'antica collegiata di San Pietro, tuttavia, avvenne solo nel 1480.

La facciata
Ancora oggi la principale attrazione artistica dell'edificio è la facciata, adorna di notevolissimi fregi e figure in cotto, databili forse nelle parti più antiche, come suggerisce Giovanni Donato (1983), al 1450-60 circa. Il complesso delle terrecotte va considerato una delle principali espressioni dell'arte tardogotica quattrocentesca in Piemonte, benché soggetto nel corso dei secoli a numerosi interventi di ripristino, cagionati in particolare dalla deperibilità e dalla scarsa qualità del materiale argilloso. Se i primi restauri risalgono al 1666, l'intervento integrativo più consistente fu attuato all'inizio del Novecento da Cesare Bertea, con sostituzione di numerose figure riconoscibili dal diverso stile esecutivo e dalla tonalità più chiara dell'argilla. Le terrecotte della facciata sono racchiuse in una monumentale forma a cuspide (detta ghimberga), che ascende fino al colmo del tetto sottolineando la maestosità del portale. E' evidente infatti, in questa figurazione, la simbologia dell'ingresso della chiesa come "porta del cielo", passaggio dalla dimensione terrena alla dimensione dell'eternità e della gloria. La grande cuspide è simbolicamente sorretta da ventiquattro figure ordinate in quattro sequenze verticali ed inserite - dodici a destra e dodici a sinistra - fra esuberanti baldacchini e peducci. I personaggi delle due file esterne recano il capo coperto da berrettoni o da corone, mentre quelli delle due file interne hanno la testa scoperta e circondata da aureola. I primi, secondo le consuetudini dell'iconografia medievale, sono identificabili in profeti che hanno annunciato l'incarnazione e simboleggiano l'Antico Testamento. Nei secondi, invece, sono riconoscibili i dodici apostoli, che hanno diffuso il vangelo del Cristo. Anche il numero ricorrente dodici ha, come è naturale, un preciso significato allegorico, perché dodici sono le tribù d'Israele, il "popolo eletto". Al culmine della grande ghimberga, fra altre teste di personaggi coperte da berrettone, compare un angelo che reca fra le braccia un tondo raggiato con al centro il monogramma del nome di Gesù. Al di sotto dell'angelo si apre il magnifico rosone, nel quale si ripetono teste barbate e altri motivi ornamentali. Subito al di sotto del rosone, vi è una ghimberga più piccola, decorata con figurine di angeli e putti ottenute a stampo. Nel culmine di questa cuspide si libra la figura del Redentore. Al di sotto della ghimberga inferiore, infine, si apre il portale, a forte strombatura e nella cui lunetta è raffigurata una bellissima statua in terracotta della Madonna col Bambino, di gusto bizantineggiante. Intorno al portale si dispongono altre figure modellate di santi, fra le quali si riconoscono Giacomo il Maggiore, con il bastone da pellegrino, Giovanni Battista, con l'abito di pelli di cammello e la croce, Pietro, con il libro e le chiavi, e Paolo, con il libro e la spada. Completano la figurazione, ai lati del Redentore, le immagini dell'Arcangelo Gabriele e della Madonna Annunciata.

Il campanile
Sulla destra del portale si eleva un massiccio campanile in mattoni, eretto nel 1457 sacrificando una cappella della chiesa. Originariamente il campanile culminava con un'alta guglia ottagonale costituita da una struttura in legno e ricoperta di lucenti lamine di latta. Tale cuspide, che era sormontata da un gallo di bronzo dorato, era circondata sui quattro angoli della torre da quattro pinnacoli minori e da una ringhiera sui quattro lati. Tale guglia era motivo di grande orgoglio da parte della cittadinanza, che più volte dovette provvedere a restauri in seguito ai danni causati dalle intemperie. Nel 1705, durante l'assedio portato dalle truppe francesi, la parte superiore del campanile fu distrutta dalle cannonate nemiche. La guglia gotica non fu più ricostruita ed al suo posto, nel secondo decennio del Settecento, fu innalzata la tozza cella campanaria che tuttora sussiste. A ricordo dell'antica cuspide metallica, ai Chivassesi rimase tuttavia il soprannome di "facia 'd tòla" ("faccia di latta"). La meridiana con "ora italica", che compare sul lato del campanile rivolto verso la piazza, è opera recente di Mario Tebenghi, come quella del municipio, ma ricalca modelli sei-settecenteschi.

L'interno
L'interno a tre navate della chiesa è, dal punto di vista architettonico e decorativo, quanto mai eterogeneo. Le superstiti strutture in mattoni della fase quattrocentesca, con i loro robusti pilastri quadrilobati e le loro volte a crociera, sono state parzialmente rimesse in luce negli anni Trenta-Quaranta del Novecento e sono particolarmente leggibili nella navata destra, decorata con affreschi neogotici. Le altre due navate conservano parzialmente, invece, il riassetto architettonico intrapreso a partire dagli anni Venti dell'Ottocento su progetto di Andrea Cattaneo. La bravura del Cattaneo, architetto che si situa fra il crepuscolo del Barocco e il Neoclassicismo, emerge soprattutto nell'abside costruita ex novo, resa imponente da colonne di derivazione palladiana e provvista di deambulatorio. Gli affreschi che ornano le volte della navata principale, di esuberanza neobarocca, sono probabilmente databili al tardo Ottocento.
Fra le opere d'arte custodite nella collegiata notevolissima rilevanza ha un gruppo di otto grandi figure in terracotta policroma, databile alla seconda metà del Quattrocento e visibile in una nicchia a destra dell'ingresso. Il complesso raffigura una Pietà e si ispira ad esempi borgognoni. Il corpo irrigidito di Gesù, coricato sulla Sindone, viene pianto dalla Madonna, visibile al centro col volto seminascosto dal velo, dal discepolo Giovanni che sorregge colei che per lui è una nuova madre, e dalle tre Pie Donne, delle quali quella con il vaso d'unguento è identificabile come Maria Maddalena. Il lenzuolo funebre del Cristo è sorretto, ai lembi, da due solenni vegliardi in cui si possono riconoscere Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea: si noti in particolare la splendida delicatezza di modellazione delle loro teste, appena alterata da successive ridipinture. L'altare che sorge accanto a questo gruppo di terracotta reca una pala che raffigura la Visitazione e Sante.
Al secondo altare si trova invece un importante dipinto su tavola del primo quarto del Cinquecento. Il dipinto rappresenta il Compianto sul Cristo morto, anche se viene comunemente definito come Deposizione dalla Croce. Si tratta dell'unica opera conservata in città che sia ascrivibile alla bottega del chivassese Defendente Ferrari, se non al maestro stesso. Anche in questo dipinto Defendente Ferrari si dimostra ricettivo nei confronti della pittura fiamminga e dell'incisione tedesca del Quattrocento: si noti in particolare l'affettuosa minuzia naturalistica dei fiori di campo che abbelliscono il prato intorno al corpo esanime di Gesù, nonché il particolare, assai significativo per un pittore piemontese, delle montagne coperte di neve che si intravedono sullo sfondo. Superba è, inoltre, la cornice in legno intagliato e dorato, di gusto schiettamente rinascimentale con i suoi motivi a candelabra. A sinistra della pala di Defendente vi è una grande tela raffigurante il beato Angelo Carletti, illustre francescano osservante del Quattrocento, nato a Chivasso e noto in tutta Europa per la sua opera intitolata Summa de casibus conscientiae, o anche Summa Angelica. Il dipinto è da datarsi alla seconda metà del Settecento, non troppo lontano dall'anno 1753 in cui il Carletti fu beatificato. Tale dipinto fu tuttavia ritoccato e ingrandito, presumibilmente, alla fine del secolo scorso. Proprio a tale periodo sembra risalire la veduta di Chivasso raffigurata nella parte bassa della tela.
Nel transetto destro, affrescato con figure di angeli, campeggia un elegante altare neogotico in marmo verde scuro, che racchiude un trittico ad olio su tela datato 1907 e firmato dal pittore G. Guglielmetti. Il dipinto raffigura il Sacro Cuore fra il Beato Angelo Carletti e San Sebastiano. Le tre figure, che denunciano l'influenza di maestri tardo ottocenteschi come il Reffo e il Rollini, spiccano su un fondo oro a finto mosaico e sono tratteggiate secondo un gusto un po' arcaicizzante, attento alla pittura primitiva e "devota" del Quattrocento italiano e fiammingo.
L'abside presenta, al disopra dell'altar maggiore barocco in marmi policromi, un gruppo ottocentesco in terracotta policroma raffigurante la Madonna Assunta. Addossato ad un pilastro della navata principale, non si tralasci poi di notare il pulpito donato dalla città di Chivasso negli anni cinquanta del Seicento, ornato da finissimi bassorilievi lignei con le immagini del Redentore e degli Evangelisti.
Presso il transetto sinistro una porticina ad arco acuto conduce alla cappella della Madonna di Lourdes. Si tratta dell'antica sacrestia quattrocentesca, che presenta ancora le originarie linee gotiche. A sinistra della porticina vi è un altare neorinascimentale, la cui pala raffigura la Madonna col Bambino fra i santi Crispino e Crispiniano, patroni della antica corporazione locale chiamata "Università dei Calzolai". Questi santi sono pertanto caratterizzati dall'attributo di una scarpa posta su un cuscino.
Proseguendo verso l'uscita, si incontrano altre due pale. La prima, posta su un confessionale, è di buona fattura settecentesca e rappresenta la Madonna col Bambino e i santi Alberto da Vercelli carmelitano, Apollonia, Omobono da Cremona e Lucia. Questo dipinto un tempo era posto sull'altare della corporazione "Università dei Sarti" ed infatti i santi Alberto da Vercelli ed Omobono erano i protettori di coloro che cucivano gli abiti. L'ultima pala prima dell'ingresso, invece, è tuttora inserita in un altare; essa raffigura la Santissima Trinità e i santi Luigi Gonzaga, Caterina d'Alessandria, Rosa e Orsola. Come scrive lo storico Borla (1773), questa pala fu dipinta dall'artista locale Antonio Barbero, attivo fra la fine del Seicento e la morte, avvenuta nel 1711. Secondo Carlo Caralmellino (1994), la figura di San Luigi può essere un'aggiunta posteriore. Sulla controfacciata della chiesa si noti, infine, il grandioso organo, la cui installazione è stata la causa della chiusura del luminoso rosone quattrocentesco. Lo storico strumento, fra i più preziosi del Piemonte e con più di 3.800 canne, due manuali e pedalieria, fu costruito nel 1843 dall'organaio Felice Bossi ed alterato da successive modifiche.

Il duomo di Chivasso è sempre aperto al pubblico in orario diurno.

Per approfondimenti:
- Boggio Camillo, Le prime chiese cristiane del Canavese, Paravia, Torino, 1887.
- Boggio Camillo, Le chiese del Canavese, Viassone, Ivrea, 1910. Regione Piemonte, Asti, 2003.

Torre Ottagonale a Chivasso

La Torre Ottagonale di Chivasso
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La Torre Ottagonale di Chivasso
La Torre Ottagonale sorge all'inizio dell'attuale via Po ed è visibile anche da piazza della Repubblica. Non si sa con certezza quando la struttura sia stata eretta. Alcuni studiosi la datano addirittura all'ottavo secolo e la attribuiscono a maestranze longobarde. Tuttavia, per la sua tipologia architettonica, è preferibile collocare la torre in epoca posteriore, nell'undicesimo o nel dodicesimo secolo. Lo storico settecentesco Giuseppe Borla (1773) scrive che la torre sarebbe più antica del 1019, anno in cui metà di Chivasso divenne feudo della vicina abbazia benedettina della Fruttuaria a S. Benigno Canavese. Lo stesso Borla annota inoltre che la costruzione fu in seguito inglobata nel poderoso castello eretto nel 1178 da Guglielmo IV Aleramico, detto il Vecchio, Marchese del Monferrato, nonché feudatario di Chivasso a partire dal 1164. La torre rappresenta oggi tutto ciò che resta di quel castello.
Dopo il tredicesimo secolo la torre fu innalzata di parecchi metri, utilizzando i mattoni anziché la pietra, come nella parte inferiore. Questa aggiunta fu demolita nel 1800, quando anche le altre strutture residue del castello, ormai rovinato dai numerosi assedi e assai degradato, furono abbattute e fu aperta l'attuale via Po.
La parte della torre che si è conservata fino a noi, e che è attualmente coperta da un tetto, aggiunto durante un recente restauro, è alta circa venti metri. La struttura presenta all'esterno un rivestimento in blocchi di pietra calcarea e ciottoli e all'interno un paramento murario in mattoni, che termina in una volta a padiglione a otto spicchi.
Sui lati nord e sud, a circa otto metri d'altezza sopra l'attuale piano di calpestio, due porte immettono nell'interno della torre. Anticamente infatti si accedeva alla torre mediante scale di legno addossate alla parete esterna e che in caso di assedio potevano essere rimosse. Il vano interno era un tempo suddiviso in almeno tre piani, pavimentati in legno, come testimoniano i livelli delle mensole.
La struttura della torre non comprende soltanto i venti metri che si innalzano da terra, ma anche la sottostante poderosa fondazione in massi e ciottoloni, che affonda nel suolo e che ha garantito stabilità all'edificio per molti secoli.

L'interno della torre non è visitabile.


Regia Mandria di Chivasso

Abbeveratoio e facciata interna ovest della Mandria di Chivasso
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Abbeveratoio e facciata interna ovest della Mandria di Chivasso
L'abbeveratoio nella piazza della Mandria di Chivasso
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L'abbeveratoio nella piazza della Mandria di Chivasso
La Mandria di Chivasso vista da est
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La Mandria di Chivasso vista da est
Mandria di Chivasso, via di accesso da sud
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Mandria di Chivasso, via di accesso da sud
Interno della chiesa di S. Eligio alla Mandria di Chivasso
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Interno della chiesa di S. Eligio alla Mandria di Chivasso
Ubicata in aperta campagna, a 6 km a nord-est della città, la Mandria è un grandioso e simmetrico complesso di edifici in mattoni a vista, circondati da un reticolo regolare di appezzamenti agricoli. Ancora oggi, pur nel parziale degrado architettonico, arrivando alla Mandria di Chivasso si possono riconoscere gli evidenti segni della razionalità settecentesca che la concepì.

La Mandria fu edificata per volontà del re Carlo Emanuele III di Savoia nel decennio 1760-70, quale azienda economica di proprietà regia, dipendente dalla Venaria Reale di Torino ed espressamente finalizzata ad incrementare e razionalizzare l'allevamento dei cavalli e in particolare delle puledre (la cosiddetta razza), destinate alla riproduzione per coprire i fabbisogni della corte e di parte dell'esercito.

Scorrendo i documenti storici, ciò che stupisce è la velocità con cui si progredì nella costruzione del nuovo ed efficiente complesso: nel decennio che va dal 1760 al 1770 la Mandria fu costituita non solo dal punto di vista architettonico in senso stretto, ma anche da quello territoriale, legale, sociale e religioso. Completato l'acquisto dei terreni, 767 ettari nella zona tra Chivasso, Mazzè, Rondissone e Verolengo, si presentò un problema di giurisdizione unica. A tale scopo nel febbraio 1764, con regia patente, il notaio Giovanni Tommaso Bernardi fu nominato amministratore della giustizia in questo tenimento, che dipendeva direttamente dalla Corona Reale.

Poco prima, nel settembre 1763, il re aveva assegnato al direttore dell'Azienda di Venaria Reale, Carlo Onorato Sarterio ed al "misuratore generale" Giuseppe Giacinto Bays, non solo i compiti di strutturare e ordinare questo territorio e di organizzare la produzione economica della tenuta regia, ma anche il compito di progettare il nuovo complesso architettonico, che avrebbe dovuto sorgere al centro di questo territorio.

Il complesso della Regia Mandria di Chivasso fu progettato dunque dallo stesso Bays con criteri pienamente funzionali. L'architetto progettò infatti tutti i fabbricati in modo che fossero disposti attorno ad un vasto cortile. Al centro di questo spazio fu costruito un grande abbeveratoio circolare per gli animali, che venne disegnato dal "regio machinista Mathej" e che è stato recentemente ricostruito, dopo essere stato distrutto alcuni decenni orsono. In base al progetto del Bays tutte le differenti tipologie di edifici, realizzati rigorosamente in mattoni a vista e carpenteria, trovarono una collocazione razionale. Le cascine che circondavano il fabbricato centrale vennero raccordate ad esso con una ordinata rete di strade; sui due lati est ed ovest del grande cortile furono innalzate costruzioni a più piani, destinate ad ospitare le dimore dei lavoratori e gli uffici del personale dirigente; furono realizzati fienili chiusi con grandi grate in legno per essere sempre arieggiati; sorsero inoltre i depositi degli attrezzi agricoli e, naturalmente, le stalle degli equini collocate sotto ordinate sequenze di archi.

Appena terminato il cantiere, Carlo Emanuele III, il 14 ottobre 1767, inoltrò al Vescovo di Ivrea la richiesta di istituire una parrocchia dedicata a Sant'Eligio Vescovo - patrono degli orefici, ma anche dei maniscalchi - facendosi carico del mantenimento del prevosto. La chiesa parrocchiale è tuttora in funzione. Anch'essa opera dell'architetto Giuseppe Giacinto Bays, la Parrocchiale di Sant'Eligio, quasi in contrasto con il prospetto di estrema sobrietà esterna, presenta un delizioso interno ad aula unica, ornato nella volta con elegantissimi vasi e bracieri in stucco di gusto rocaille, mentre nel presbiterio campeggia ancor oggi una pala settecentesca raffigurante la Madonna con Sant'Eligio vescovo.

Gli avvenimenti storici modificarono presto e più volte la destinazione d'uso e la stessa fisionomia del complesso della Mandria. In base ad un decreto del 1797 il tenimento divenne infatti "Bene Nazionale", concesso in affitto ad una società di ex nobili, adattatisi alla Rivoluzione Francese, che impiantarono nella tenuta un vasto allevamento di pecore di razza pregiata.

Con la Restaurazione la Mandria di Chivasso, seguendo la sorte del complesso di Venaria Reale, decadde lentamente. Nel 1834 entrambe le tenute persero il patronato regio e passarono alle dipendenze della Regia Intendenza di Finanza. Dopo un ventennio la tenuta chivassese fu messa all'asta e nel 1855 essa fu acquistata da un nobile, il conte Apollinare Rocca Saporiti, che però rifiutò di accollarsi il mantenimento del parroco.

Nella primavera del 1859 l'esercito sabaudo dispiegò le sue truppe nelle campagne dell'ex tenuta regia e nelle zone limitrofe, per fermare una eventuale avanzata dell'esercito austriaco.

Ancora in una circostanza l'ex tenuta sabauda poté comparire agli onori della storia. Alla vigilia della prima guerra mondiale, infatti, il vasto territorio pianeggiante dell'antico "tenimento regio", ospitò un campo d'aviazione e di riparazione di veicoli aerei. Nell'autunno del 1918 gli hangar di questo aeroporto militare furono trasformati in baracche, usate per offrire una ospitalità temporanea ai soldati di nazionalità polacca dell'esercito austro-ungarico. Infatti, a seguito degli accordi tra il Governo Italiano e il Comitato Nazionale Polacco di Parigi, fu realizzato alla Mandria di Chivasso un campo destinato ad accogliere i volontari dell'esercito polacco, allora in via di formazione, arruolati tra i prigionieri dell'esercito austro-ungarico.

Complessivamente il campo ospitò circa 200.000 militari polacchi, che nel corso del 1919 furono inviati in Francia, da dove poterono raggiungere la Polonia, che aveva da poco riacquistato l'indipendenza. Il piccolo cimitero della Mandria accolse i primi venti militari deceduti dopo l'arrivo in Piemonte e in loro memoria fu posta la lapide recentemente restaurata a cura dell'associazione "La Mandria monumentale". In seguito, perdurando una epidemia, alcune centinaia di militari furono sepolti anche nei cimiteri di Chivasso, Ivrea e Torino, dove riposano tuttora. Testimonianze fotografiche della permanenza dei soldati polacchi alla Mandria di Chivasso sono oggi raccolte in un album presente nel Museo Nazionale del Risorgimento Italiano a Torino.

Nel dicembre 1919 la tenuta della Mandria fu lottizzata e acquistata soprattutto da agricoltori. La maggioranza dei proprietari odierni è erede degli acquirenti del 1919.

Ancor oggi, dopo oltre duecento anni, viene vivamente festeggiata, in ogni primavera, la festa di Sant'Eligio, protettore dell'antico "tenimento". Dal 1993, inoltre, in tale occasione si tiene presso gli antichi locali settecenteschi della Mandria una prestigiosa rassegna internazionale d'arte naif, con opere italiane ed internazionali, organizzata dall'associazione "Pro Mandria".

Gli edifici civili della Mandria di Chivasso, al momento in restauro, non sono visitabili. La chiesa di S. Eligio può essere visitata in occasione delle funzioni religiose. Gli spazi esterni sono invece visitabili in qualunque momento.

Per approfondimenti:
Actis Caporale Aldo, Ricerche storico-iconografiche riguardanti un importante intervento settecentesco sul territorio: la Regia Mandria di Chivasso, in Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti: Archeologia e arte in Canavese, Celid, Torino, 2000.

Santuario della Madonnina a Verolengo

Il santuario della Madonnina a Verolengo
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Il santuario della Madonnina a Verolengo
La cupola del santuario della Madonnina
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La cupola del santuario della Madonnina
La grande statua del Mosè
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La grande statua del Mosè
Chi proviene da Crescentino o da Chivasso e giunge a Verolengo percorrendo la ex S.S. 31 bis del Monferrato, nota già in lontananza l'inconfondibile cupola del Santuario della Madonnina, detto anche Santuario del Veuchio.
L'interno della chiesa, luminossissimo, presenta una grande cupola istoriata da rosoni dipinti su soffitto cassettonato che, con sapiente gioco di trompe l'oeil, rendono efficacemente l'effetto della tridimensionalità. Le quattro grandi statue che rappresentano, rispettivamente, in senso orario, Mosè, S. Giuseppe, S. Anna e S. Giovanni Battista, sono opera degli Augero, famiglia di artisti originaria di Verolengo, ma conosciuta ed attiva in tutto il Piemonte nell'Ottocento. Sono opera di Amedeo Augero i grandi affreschi che ornano la chiesa, situati a destra e a sinistra dell'entrata e che raffigurano, rispettivamente, l'Assunzione di Maria e la Presentazione di Maria al tempio, entrambi databili intorno al 1850. I sei riquadri immediatamente sotto il cornicione della cupola maggiore, che rappresentano momenti della vita della Madonna, furono dipinti invece dal pittore Mentasti. Sono inoltre augeriani sia l'affresco che orna il cupolino del sancta sanctorum, con l'Incoronazione di Maria, sia le immagini dei quattro profeti maggiori situate sui peducci.
Al centro dell'altar maggiore, al di sopra del tabernacolo, si erge un piccolo affresco, raffigurante la Madonna con il Bambino, molto probabilmente la beata Vergine di Oropa, visto il colorito scuro del volto, con a sinistra S. Carlo Borromeo e a destra S. Antonio da Padova. Questo dipinto, di autore ignoto, esisteva già alla fine del Seicento, ma era collocato in un preesistente pilone votivo di campagna. Questo piccolo affresco è all'origine sia del santuario, sia della sua fama taumaturgica. La tradizione narra infatti che un sacerdote, un certo don Bracco, fu sbalzato di sella dal cavallo imbizzarrito e, con un piede impigliato in una staffa, fu trascinato per un lungo tratto, finché, proprio di fronte a questo pilone, l'animale si bloccò e il prete, rimasto miracolosamente incolume malgrado la brutta avventura, ringraziò la Vergine per lo scampato pericolo. In segno di riconoscenza il sacerdote fece includere il pilone votivo all'interno di una cappella (1609). Essendo divenuta ben presto insufficiente a contenere il gran numero di fedeli, la primitiva cappella fu demolita e ricostruita più capiente. Ma anche il nuovo edificio si rivelò presto insufficiente per contenere le tante persone che accorrevano in questo luogo ritenuto taumaturgico. Pertanto nel 1834 iniziarono i lavori per la costruzione di una nuova chiesa, su progetto dell'architetto Carlo Bossi di Torino, che fu inaugurata e consacrata da monsignor Moreno, vescovo d'Ivrea, nel 1851, anche se i lavori si conclusero definitivamente soltanto nel 1861, anno in cui venne collocato il grande portone d'ingresso.

Il santuario ha pianta circolare, con colonne aderenti al muro perimetrale e reggenti capitelli corinzi. La cupola è in cemento, con lucernario centrale. Particolarmente interessanti all'interno del santuario sono gli ex voto. Evidentemente l'episodio occorso a don Bracco ebbe subito immediata diffusione e fama. La lunga serie di ex-voto tuttora conservata nell'abside del santuario fu inaugurata con un quadretto datato 1690, che ritrae l'episodio di cui fu protagonista il sacerdote Bracco. I numerosissimi dipinti che attraverso i secoli esprimono la gratitudine dei fedeli verso la Beata Vergine testimoniano la la devozione di cui fu ed è ancora oggetto la Madonnina di Verolengo. Una tradizione del paese vuole che la fontana di acqua sorgiva che sgorga a pochi metri dalla facciata del santuario abbia virtù miracolose per la guarigione di malattie legate agli occhi, come documentano anche alcuni ex-voto.

La chiesa è aperta al pubblico tutte le domeniche mattina. Per visitare il santuario in altri orari occorre rivolgersi ai custodi residenti nell'abitazione attigua alla chiesa.

Per approfondimenti:
- Boggio Camillo, Le chiese del Canavese, Viassone, Ivrea, 1910.

Castello di Castagneto Po

Scorcio del castello di Castagneto Po
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Scorcio del castello di Castagneto Po
Uno degli ingressi al parco del castello di Castagneto
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Uno degli ingressi al parco del castello di Castagneto
Castello di Castagneto Po
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Castello di Castagneto Po
Carla Bruni sulla balconata d'ingresso del suo castello
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Carla Bruni sulla balconata d'ingresso del suo castello
Dell'esistenza del castello di Castagneto si ha testimonianza già nel 1019, quando Ottone Guglielmo, figlio del marchese Adalberto II Re d'Italia, donò ai monaci dell'Abbazia di Fruttuaria (San Benigno Canavese), insieme ai territori circostanti, la metà di Chivasso «cum castello Castaneo ultra Padum». In tal modo il castello di Castagneto diventò possedimento indiretto del Vescovo di Ivrea, nella cui diocesi si trova l'Abbazia di Fruttuaria.
Nel 1227 il castello di Castagneto Po fu concesso come investitura, insieme a Casalborgone e a Chivasso, ai marchesi del Monferrato. Dal XIII secolo il controllo della regione passò ai Principi d'Acaja, fatto che diede luogo a feroci attacchi da parte dei marchesi del Monferrato. Nel 1397 Castagneto e il suo castello furono dati alle fiamme dal condottiero Facino Cane e dalle sue truppe.
Il castello e l'abitato di Castagneto, ricostruiti dopo le distruzioni, divennero dapprima feudo dei Roero di Asti, poi dei Socci e infine dei Provana. Nel 1620 Vittorio Emanuele I Duca di Savoia diede il paese ed il castello in feudo al conte Giovanni Antonio Trabucco, potente generale delle finanze del Re.
Fra il 1500 e il 1700 Castagneto subì numerose invasioni da parte delle armate francesi. Insieme a Chivasso, infatti, Castagneto fu inclusa nel sistema difensivo a protezione di Torino da est. Nel 1705, durante la guerra di successione spagnola, il maniero ed il borgo furono distrutti dalle truppe del Maresciallo La Feuillade, come accadde per la Fortezza di Verrua Savoia.
Sulle rovine dell'antica fortezza di Castagneto, nel 1740 i conti Trabucco fecero riedificare il castello su disegni dell'architetto Nicolis di Robilant. I lavori di riedificazione furono ultimati nel 1835 da Ernesto Melano, architetto che lavorava presso la corte reale.
Verso la fine del 1800 la proprietà del castello passò ai conti Ceriana. Arturo Ceriana abbellì il castello e vi aggiunse una galleria disegnata in stile cinquecentesco, decorata con marmi e pietre fini scolpite. Due grandi artisti operanti in Piemonte, Gonin (1808-1889) e Sereno (1829-1893), si occuparono inoltre della decorazione di alcune sale.

Dopo i Ceriana, il castello passò ai conti Fé d'Ostiani.

Nel 1952 il castello fu acquistato dall'ingegner Alberto Bruni Tedeschi (Moncalieri, 1915 - Parigi, 1996), figlio dell'industriale di origine vercellese Virginio Bruno Tedeschi, fondatore e proprietario dell'industria della gomma C.E.A.T.
Alberto Bruni Tedeschi fu un uomo raffinato e poliedrico. Ereditata dal padre la professione di imprenditore, Alberto compì studi di diritto e di composizione musicale e si distinse per il suo impegno di esploratore negli oceani e nella giungla, di partigiano, di collezionista d'arte, ma soprattutto di ottimo compositore di musica, specialmente dodecafonica. La prima opera lirica composta da Alberto Bruni Tedeschi fu "Villon", su un libretto di Tullio Pinelli (sceneggiatore de "La Dolce Vita"), che fu rappresentata a Bergamo nel 1940 in prima assoluta con la grande cantante Giulietta Simionato e sotto la direzione di Gianandrea Gavazzeni. Grazie alle grandi competenze in campo musicale, Alberto Bruni Tedeschi fu per 14 anni, dal 1956 al 1971, Sovrintendente del Teatro Regio di Torino, che fu ricostruito grazie al suo impulso dopo il rogo del 1936.

Dopo aver acquistato il castello di Castagneto, Alberto Bruni Tedeschi vi intraprese lavori di rinnovamento durati trenta anni. Il castello fu attrezzato per diventare una abitazione dotata di tutti i comfort moderni, compresi gli ascensori, ma fu allo stesso tempo decorato con antiche boiseries e pavimenti in marqueterie, furono restaurati gli affreschi e arredato con mobili, oggetti e quadri.

Alla morte di Alberto Bruni Tedeschi, avvenuta a Parigi il 17 febbraio 1996, il castello di Castagneto andò in eredità alla moglie Marisa ed ai figli Virginio, Valeria e Carla. Il figlio Virginio morì prematuramente nel 2006. Valeria Bruni Tedeschi è una attrice e regista cinematografica, mentre la figlia Carla è la famosa modella e cantante, che il 2 febbraio 2008 sposò il Presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy. Tuttavia, a seguito del regime di separazione patrimoniale dei beni scelto dai coniugi Sarkozy, il castello di Castagneto Po non entrò nel patrimonio del Presidente francese, rimanendo pertanto ancora in proprietà esclusiva della moglie e delle figlie di Alberto Bruni Tedeschi.
Carla Bruni-Sarkozy, la sorella Valeria e la madre Marisa, dopo la morte del padre e marito, trasformarono in accomandita la società che controllava il Castello di Castagneto Po, noto anche col nome di "Villa Ceriana".
Gran parte del prezioso mobilio e delle opere d'arte raccolte da Alberto Bruni Tedeschi, fra i quali quadri d'autore, sedie Luigi XVI, tavoli intarsiati e arazzi, furono venduti all'asta a Londra, da Sotheby's, suddivisi in trecento lotti con un valore complessivo valutato 10,6 milioni di euro, con lo scopo di finanziare la fondazione nata in memoria di Virginio, il fratello di Valeria e Carla Bruni Tedeschi, morto prematuramente nel 2006.
Il 19 maggio 2009, presso lo studio di un commercialista torinese, Marisa Bruni Tedeschi, anche in nome e per conto delle figlie Valeria e Carla, ha firmato l'atto di vendita del Castello di Castagneto, per una somma di 17,5 milioni di euro. L'acquirente del castello è ora un potente uomo d'affari arabo, il principe dell'Arabia Saudita Al Waleed Al Saud, considerato il 13/o uomo più ricco al mondo (anno 2009).
Il 10 luglio 2009, di ritorno dal summit G8 svoltosi all'Aquila, i coniugi Carla Bruni e Nicolas Sarkozy, dopo una breve visita alla tomba di famiglia nel cimitero monumentale di Torino, dove sono sepolti il nonno, il padre anagrafico ed il fratello di Carla Bruni, sono giunti in visita al Castello di Castagneto Po, che per l'occasione il nuovo proprietario saudita aveva messo a disposizione, affinché Carla Bruni potesse mostrare al marito i luoghi in cui aveva trascorso parte della sua infanzia.

Il castello di Castagneto ha una superficie di 1500 metri quadrati ed è composto da 40 stanze.

All'esterno il castello è circondato da un parco di 144 ettari, in cui sono presenti alberi secolari, orti, frutteti, ampie terrazze coltivate a fiori, antiche serre, cascine e una pista per l'atterraggio di elicotteri.

Il castello di Castagneto è una residenza privata e non è visitabile dal pubblico.


Villa Cimena a Castagneto Po

La storia di Villa Cimena, per lungo tempo appartenuta alla famiglia dei Turinetti di Priero, ebbe inizio nel 1663, quando fu costruita per fungere da importante residenza di campagna nella "Vigna di Cimena", in collina a dominio della pianura del Po.
A inizio Ottocento il conte Giorgio Turinetti di Priero vendette la villa al conte Ignazio Thaon di Revel. Ottavio Thaon di Revel, figlio di Ignazio e Ministro delle Finanza del Regno d'Italia, ereditata la villa, ne ordinò la completa ricostruzione in forme neoclassiche. Ottavio Thaon di Revel si affidò per il rifacimento della villa all'architetto regio Carlo Sada [1809-1873] che realizzò anche la "vigna neoclassica". Nel 1969 villa e tenuta furono acquistati da Renato Rosso, che intraprese interventi di recupero e restauro degli interni, rovinati dal tempo e dalle guerre. Con Renato Rosso iniziò una fase molto importante per la dimora, che acquistò sempre più importanza e bellezza grazie alla meticolosa passione e pazienza con la quale il proprietario e collezionista ricercò opere d'arte, arredi e suppellettili per arricchire e abbellire gli interni.
La facciata della villa è in stile neoclassico, monumentale con un doppio ordine di colonne e un alto frontone ornato di statue, dal chiaro richiamo alle architetture palladiane.
L'ampio parco della villa, realizzato in pochi anni a partire dal 1847, è opera di Marcellino Roda [1814-1892], giardiniere e paesaggista, attivo con il fratello Giuseppe anche al parco di Racconigi. Marcellino e Giuseppe Roda si possono considerare gli eredi e continuatori del lavoro di Xavier Kurten [1811 - 1840], paesaggista tedesco, autore dei più importanti giardini all'inglese piemontesi.
Le stanze di Villa Cimena presentano una elegante e ricercata armonia di stile sia grazie a manufatti di importanti ebanisti piemontesi, quali Gabriele Capello detto il "Moncalvo" [Moncalvo, 1806 - Torino, 1877], sia grazie alle opere di celebri pittori, quali Michele Antonio Rapous [Torino, 1733-1819], Francesco Beaumont [Torino 1694-1766], Vittorio Amedeo Cignaroli [Torino, 1730-1800], oltre a bronzetti di Pierre Philippe Thomire [Parigi, 1751-1843], sculture di Lorenzo Bartolini [Savigliano, 1777 - Firenze, 1850], arredi della camera azzurra di Giuseppe Maria Bonzanigo [Asti, 1745 - Torino, 1820] e maioliche della Manifattura Rossetti.

Oggi Villa Cimena è sovente usata quale set cinematografico.
La villa è aperta al pubblico soltanto in particolari occasioni.

Chiesa di San Genesio a Castagneto Po

La chiesa di S. Genesio a Castagneto Po
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La chiesa di S. Genesio a Castagneto Po
La chiesa di S. Genesio a Castagneto Po
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La chiesa di S. Genesio a Castagneto Po
Dettaglio delle absidi di S. Genesio a Castagneto Po
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Dettaglio delle absidi di S. Genesio a Castagneto Po
A 370 metri di altitudine, non lontano dal centro storico di Castagneto Po e in una zona boscosa di alte colline che si aprono a nord-est verso la Pianura Padana, sorge la chiesa romanica e neoromanica di San Genesio.

La primitiva chiesa romanica di S. Genesio fu fondata e costruita tra il 1019 ed il 1150 dall'abbazia di Fruttuaria di San Benigno Canavese, sul luogo di una preesistente cappella. Dell'edificio originario del XII secolo restano l'abside centrale, la piccola abside a nord con la sua cripta e il poderoso campanile in muratura a pianta quadrata, con monofore, bifore e trifore decorate e spartito da cornici di archetti pensili monolitici in sette ordini.

La chiesa attuale è il risultato di un rifacimento neoromanico del 1912 ad opera dell'ingegner Ceriana, che ampliò le dimensioni della chiesa originaria, rifacendone la facciata e le pareti laterali.

La chiesa è a tre navate, con due absidi semicircolari. Sia i pilastri cruciformi che dividono le navate, sia le opere di scultura che adornano la chiesa risalgono al 1912.

Alla destra della chiesa, nello stesso piazzale, sorge l'antico Regio Fonte di San Genesio, un piccolo edificio al cui interno si trova la sorgente di una acqua minerale solforosa con effetti benefici. Il Regio Fonte non è aperto al pubblico.

Per la visita alla chiesa di S. Genesio, di norma chiusa: Parrocchia di Castagneto Po, Tel. 011/912916.


Castello della Villa a San Sebastiano Da Po

Veduta aerea della frazione Villa con il complesso del castello, del parco e della parrocchiale
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Veduta aerea della frazione Villa con il complesso del castello, del parco e della parrocchiale
Un interno del castello di S. Sebastiano
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Un interno del castello di S. Sebastiano
Scorcio del parco con il tempietto neoclassico e l'orangerie
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Scorcio del parco con il tempietto neoclassico e l'orangerie
Il castello di San Sebastiano Da Po si trova sulla parte sommitale della collina sulla quale sorge la frazione Villa, capoluogo comunale.
Le origini del Castello risalgono all'alto Medioevo (secolo X), quando San Sebastiano faceva parte del Marchesato del Monferrato.
Nella seconda metà del 1700 Paolo Federico Novarina, conte di San Sebastiano, incaricò Bernardo Antonio Vittone di ristrutturare l'intero complesso. L'architetto piemontese rielaborò l'antica struttura medievale, inserendo elementi tardobarocchi e neoclassici (in particolare la facciata interna del palazzo), che in alcuni punti lasciano tuttavia ancora emergere tracce quattrocentesce.
Molto bella è la galleria affrescata da Pietro Bagetti (inizio XIX secolo), dalla quale la vista spazia sulle colline circostanti.
Il parco, che fu disegnato nel 1810 dal famoso paesaggista Xavier Kurten, fu campo di studio della Facoltà di Botanica dell'Università di Torino ed oggi comprende:
  • un giardino all'italiana con parterres di bossi e rose
  • un frutteto, a ricordo dei pomari medievali
  • un giardino-parco con secolari cedri del Libano, cipressi, vecchi aceri giapponesi e rarità botaniche
  • un grande prato all'inglese.

Al centro del parco del castello si trova un casino romantico, immerso in un boschetto di cipressi, bossi, carpini e lauri, mentre nel lato settentrionale il parco è ulteriormente arricchito da un tempietto neoclassico e dall'orangerie, che si inseriscono armoniosamente nel contesto.

Sempre nel parco si trova, ancora in buone condizioni, la vasca-fontana, adibita alla raccolta delle acque piovane e utilizzata anche come abbeveratoio per i cavalli. Dalla bastionata sul lato nord del parco si gode di un amplissimo panorama che spazia dalle colline del Monferrato alla Pianura Padana ed all'anfiteatro alpino.
Attualmente il castello è abitato ed è anche utilizzato per attività culturali, convegni, rinfreschi e cerimonie.
Il castello di San Sebastiano Da Po è altresì noto col nome di "Castello della Villa", oppure "Castello Radicati" o, recentemente, "Castello Garrone".
Accanto al castello sorge la chiesa parrocchiale dei Santi Cassiano e Sebastiano, il cui impianto a navata unica del XVII secolo fu rinnovato nel 1763 su progetto dell'architetto Bernardo Antonio Vittone. Tipico esempio di architettura barocca, la chiesa presenta un interno molto ricco e una imponente torre campanaria a destra della facciata.

Visite: il castello è visitabile tutto l'anno, ma solo per gruppi organizzati e previa prenotazione (Tel. 0119191177, Fax 0119197826 - E-mail: info@castellosansebastiano.it).


Leu a Casalborgone

Le mura del ricetto del Leu a Casalborgone
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Le mura del ricetto del Leu a Casalborgone
Una delle porte di accesso al ricetto del Leu di Casalborgone
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Una delle porte di accesso al ricetto del Leu di Casalborgone
Torre campanaria nel Leu di Casalborgone
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Torre campanaria nel Leu di Casalborgone
Su un poggio dominato dalla massa quadrata di un castello, le cui strutture più antiche risalgono all'XI secolo, sorge l'antico abitato di "Leu" (che significa "luogo").
Il castello, con la sua mole posta su un alto zoccolo collinare e sostenuta da muraglioni, fu edificato sui resti della Torre dei Radicati, che dominarono la zona dal Duecento alla metà del Cinquecento.
Dopo vari passaggi di proprietà, il castello fu acquisito e rimodellato nel XVII secolo dai conti Morozzo della Rocca.

Percorrendo il sentiero che costeggia i giardini del castello, chiamato "il sentiero della processione", la vista spazia da Castagneto Po e San Sebastiano Da Po fino ai colli monferrini, dove si scorgono cappelle campestri e antiche cascine. Intorno al maniero nel medioevo si formò un ricetto murato di forma ovale, di cui si conservano diverse strutture: i ruderi di una piccola torre (la "turiela" o torricella), la torre-porta di ingresso del XVI secolo e, a sud di questa, un'area residenziale che fu dotata di difese perimetrali nel 1471, di cui resta una torre cilindrica.

Sulla piazza a forma trapezoidale si affacciano l'antica Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Maddalena, la Chiesa della Santissima Trinità e il Municipio Vecchio.
La Parrocchiale, con l'incombente facciata in cemento costruita nel 1894, sorge su un impianto cinquecentesco. La struttura ha subito molteplici trasformazioni nel corso dei secoli, che ne hanno determinato l'attuale forma a tre navate.

La Chiesa della Santissima Trinità, eretta nel 1711 e sede della Confraternita della Santa Croce, ha pianta ellittica e facciata in mattoni, di disegno tardo barocco con semplice sagrato di scalini.
Il vecchio Municipio, risalente al Cinquecento, fu sede del Comune dal Seicento fino al 1957. Ancora oggi è possibile osservare l'antico stemma comunale sulla facciata del Municipio.



Museo delle Contadinerie a Lauriano

Museo delle contadinerie
Museo delle contadinerie
Il museo delle contadinerie di Lauriano, voluto dall'amministrazione comunale e realizzato a curato dai fratelli Arturo e Luigi Baroetto, è stato inaugurato il 15 settembre 2001.
L'esposizione raccoglie strumenti di lavoro agricolo e artigianale ed oggetti quotidiani e domestici, usati nella vita di paese nel recente passato. Salvati dall'oblio e talvolta dalla distruzione, gli oggetti esposti costituiscono la preziosa testimonianza del un passato laurianese ricco di laboriosità e creatività.
Il museo è corredato da un'ampia esposizione di fotografie d'epoca.

Il Museo delle Contadinerie ha sede nella Cascina Comunale di Via U. Appiano, 1.

Per le visite telefonare a uno dei seguenti numeri: 0119187570 - 0119187319 - 0119187595 - 0119187801 - E-mail: info@comune.lauriano.to.it - Sito internet: www.comune.lauriano.to.it



Insediamento romano di Industria a Monteu da Po

Insediamento romano di Industria a Monteu da Po
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Insediamento romano di Industria a Monteu da Po
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Insediamento romano di Industria a Monteu da Po
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Nel Comune di Monteu da Po si trova il sito archeologico di Industria, città romana sorta in posizione strategica sulla riva destra del Po, quasi alla confluenza con la Dora Baltea, tra la fine del I secolo a.C. e l'inizio del I secolo d.C., in seguito alla romanizzazione dell'area che in precedenza era abitata da popolazioni celto-liguri. Industria deve la sua importanza alla funzione di polo commerciale sulle rive del Po e, a partire dalla seconda metà del I secolo d.C., al santuario dedicato alle divinità orientali di Iside e Serapide, motivo di ricchezza e di fama. Il suo porto sul fiume rappresentò un fattore determinante anche per lo sviluppo dell'arte della lavorazione del bronzo, in quanto era per via fluviale che giungevano in città ferro e rame estratti in Valle d'Aosta e venivano veicolati i manufatti destinati all'esportazione. L'abilità artistica di artigiani di origine greco-orientale ha prodotto oggetti e decorazioni bronzei di notevole raffinatezza (statue, statuette, ex voto, oggetti di culto, oggetti di uso comune, decorazioni architettoniche, placchette...), oggi conservati presso il Museo di Antichità di Torino. Nel sito archeologico sono visibili l'area sacra con i due templi dedicati ad Iside e a Serapide, pozzi, sale di riunione, abitazioni per i sacerdoti, altari, e parte degli isolati circostanti occupati da abitazioni e botteghe artigiane affacciate sugli assi stradali.
L'area a destra del Po all'altezza della confluenza della Dora Baltea era frequentata già in epoca preromana, nell'età del ferro, sia come tratto dei percorsi secondari che dal Basso Monferrato conducevano verso la zona pedemontana sia come luogo di fissa dimora in villaggi. Tra questi esisteva Bodincomagus, villaggio abitato dagli indigeni liguri, presso il quale i romani si insediarono a partire dal II secolo a.C. e ricordato da Plinio il Vecchio come antico nome di Industria. Bodincomagus significa "luogo di mercato sul Po", in quanto deriva da bodinco, termine con cui i liguri chiamavano il Po, e da magus, che significa mercato.
In seguito alle campagne militari condotte tra il 124 e il 123 a.C. dal console romano Marco Fulvio Flacco contro le popolazioni liguri non ancora pacificate, venne potenziata la rete stradale, furono fondate nuove colonie e assegnati lotti di terreno ai nuovi abitanti. La nascita di Industria si inserisce quindi nel lungo e lento processo di romanizzazione che interessò la zona, già luogo di scambi commerciali e di contatti culturali tra diverse etnie, celtica a nord del Po, ligure a sud. L'impianto urbano, risalente all'età augustea così come l'identificazione amministrativa, aveva forma quadrangolare con un'estensione in senso nord-sud di circa 400 m e rispettava la pianta canonica delle colonie romane fondate ex novo, con una maglia di strade ortogonali acciottolate che individuano isolati regolari di forma rettangolare. Dell'area urbana, seppure in origine di dimensioni abbastanza ridotte, è oggi visibile circa un decimo di quella che si pensa essere stata l'estensione totale. Del quartiere artigianale, che doveva trovarsi vicino al fiume per maggiore comodità nelle operazioni di scarico e carico delle merci, sono stati trovati sporadici resti di fornaci e residui della lavorazione dei metalli, oggi non più visibili.
Nel I secolo a.C. la città potenzia il suo ruolo legato alla posizione geografica e diviene fiorente e famosa per il santuario dedicato alle due divinità orientali. Caratterizzano il sito i resti dei templi dedicati a Iside e Serapide, il primo del I secolo d.C., il secondo di età adrianea. La precoce diffusione del culto di Iside nella Cisalpina occidentale si deve alla presenza in città di famiglie di mercanti italici, a contatto con il mondo ellenistico per ragioni commerciali e già devote al culto isiaco. La provenienza dal mondo greco-orientale della gran parte degli schiavi e dei liberti di proprietà di queste ricche famiglie dà spiegazione anche della ricercatezza e dell'eleganza di molti dei reperti in bronzo ritrovati nel sito, risultato dell'eccezionale abilità nell'arte della lavorazione del bronzo e della conoscenza dei modelli e dei cartoni più raffinati, tipiche degli artisti orientali.
La diffusione del cristianesimo e altri motivi che l'indagine archeologica non ha ancora del tutto chiarito, in particolare a livello archeologico, portarono alla crisi del santuario e alla distruzione del tempio di Serapide nel IV secolo, mentre alcuni isolati continuarono ad essere abitati fino al VI-VII secolo. Nel V secolo infatti attorno alla pieve di S. Giovanni, costruita accanto al santuario romano e dipendente dalla diocesi di Vercelli, si stabilì una comunità cristiana che contribuì alla decadenza delle attività commerciali legate al santuario pagano e accelerò il definitivo abbandono della città. In età medioevale i longobardi sfruttarono le murature dei templi come pareti per sporadiche sepolture.
L'identificazione dei resti del sito con la città romana ricordata da Plinio il Vecchio risale al '700; gli scavi e le ricerche proseguirono nell'800 e fino a metà '900. Solo più tardi nuovi studi sulla planimetria e sui reperti portarono all'identificazione dell'area sacra, i cui edifici erano stati prima interpretati come luoghi pubblici.

Il sito archeologico è visitabile telefonando al custode sig. Nigro, Tel. 339.31.05.197. Ingresso gratuito.

(Testo della Dott.ssa Anna Bianco)

Per approfondimenti:
- Zanda Emanuela, Crosetto Alberto, C'era una volta... Industria, Rotary Club Chivasso - Arti Grafiche Chivassesi, Chivasso, 1998.


Abbazia di Santa Fede a Cavagnolo

La facciata dell'abbazia
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La facciata dell'abbazia
Particolare del portale
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Particolare del portale
Il campanile di Santa Fede
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Il campanile di Santa Fede
Capitello zoomorfo in arenaria all'interno dell'abbazia di S. Fede
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Capitello zoomorfo in arenaria all'interno dell'abbazia di S. Fede
In una piccola valletta tra boschi e vigneti a poca distanza dall'abitato di Cavagnolo sorge l'Abbazia di Santa Fede, costruita nella prima metà del XII secolo per opera dei monaci benedettini dell'abbazia di Sainte-Foy-de-Conques (Alvernia, Francia). I monaci francesi si erano spinti fin qui per rinverdire le sorti del piccolo santuario preesistente dedicato a Santa Fede, nobile giovinetta tredicenne martirizzata il 6 ottobre 303 ad Agen in Francia, durante il periodo di Diocleziano. Le spoglie della santa, ottenute o trafugate, nell'anno 886 furono trasferite nell'Abbazia cluniacense di Conques, che è ritenuta la casa madre dei benedettini nel Medioevo, dove si trovano ancora oggi.

Le fonti storiche relative alla costruzione dell'abbazia di Santa Fede a Cavagnolo, come spesso accade, sono molto esigue. Un documento del 743 attesta la presenza nel territorio di una chiesa dedicata a Santa Fede, ma si tratta certamente di una costruzione antecedente a quella attuale, poiché la chiesa odierna è costruita in forme romaniche. Federico il Barbarossa, nel diploma di Belfort del 1164, conferma il possesso di Cavagnolo al Marchese del Monferrato e menziona anche l'esistenza di un Priorato di Santa Fede. Gli altri documenti che menzionano questa chiesa di Cavagnolo sono tutti posteriori al documento del 1164. Rimangono pertanto molte lacune sulla storia di questo centro monastico del Monferrato.
Nel medioevo il monastero benedettino di Santa Fede fu ricco e fiorente, arrivando a possedere terre e fattorie persino Oltralpe ed a versare notevoli somme quali decime ordinarie ai vari papi succedutisi dal 1298 al 1440. Nel 1372 la comunità di Santa Fede raggiunse il massimo splendore, grazie anche alle donazioni del Marchese Giovanni II di Monferrato.
Nel corso del 1500 il numero dei religiosi ed i possedimenti dell'abbazia diminuirono rapidamente, fino all'abbandono del monastero nel 1584. In questa data la custodia e l'amministrazione dei beni dell'abbazia furono affidati a una serie di Priori Commendatari, l'ultimo dei quali fu Paolo Coardi, che resse i beni fino alla sua morte, nel 1728.
Dopo questa data il complesso fu aggregato ai beni della Mensa Vescovile di Acqui Terme, poi nel 1797 passò ai beni della diocesi di Casale Monferrato e infine nel 1867, in base alle leggi sulle soppressioni degli enti ecclesiastici, l'abbazia fu venduta all'asta. Un ebreo di Chieri, divenutone proprietario, nel 1881 vendette l'abbazia a don Gian Battista Frattini, un sacerdote del Cottolengo. Quest'ultimo utilizzò il complesso come luogo di villeggiatura per i seminaristi della "Piccola Casa della Provvidenza" di Torino.
Nel 1895, la struttura fu acquistata dai Padri Maristi, che ne sono ancora oggi i proprietari. I Padri Maristi, dopo vari ampliamenti, adibirono gli edifici dell'abbazia a casa di accoglienza per ritiri spirituali e convegni, ancora in esercizio oggi.

Monumento romanico di grande rilievo, l'abbazia mostra nelle forme e soprattutto nella ricchezza della decorazione l'influsso della scuola architettonica affermatasi nella Saintonge, regione francese sulla costa atlantica a nord di Bordeaux. Disposta su tre navate con abside semicircolare, la chiesa ha una facciata di esecuzione non omogenea ed ornata da semi colonne con archetti pensili sotto le falde del tetto. La facciata a salienti ha un ricchissimo portale, opera di maestri locali, leggermente strombato e delimitato da semi colonne che reggono una serie di ghiere scolpite. La seconda fascia è ad intrecci che creano dodici campi in cui sono scolpite figure zoomorfe, mostruose e geometriche con una croce al colmo dell'arco. Segue una stretta fascia ad intrecci che racchiude, assieme ad un'altra simile, una ghiera più ampia con al colmo un mascherone da cui si dipartono tralci sinuosi che racchiudono elementi fitomorfi e volatili. Altre tre ghiere sono decorate a caulicoli, a fune ritorta e a foglie. Nella lunetta in rilievo è raffigurato un Cristo pantocratore inserito in una mandorla sorretta da angeli con ali spiegate. Al centro dell'arco esterno della lunetta si nota la croce palmata, emblema del ramo benedettino di Cluny. Sopra i capitelli vi sono sculture zoomorfe e ai fianchi dell'arco due busti antropomorfi che alcuni studiosi identificarono con Adamo ed Eva. Sopra questi si trovano due grifoni. Il portale è sormontato da una bifora. Ai lati, in corrispondenza della metà delle navate minori, sporgono due alte colonne decorative. Dal fianco sinistro, coronato di archetti pensili, si vedono il transetto ed il tiburio rettangolare.
L'interno, che richiama l'arte romanica borgognona e provenzale, è essenziale, in mattoni e pietra. Le tre navate sono divise da pilastri cruciformi, su ciascuno dei quali si trovano semicolonne con interessanti capitelli. Questi ultimi sorreggono archi che rinforzano la volta a botte della navata mediana. Le navate minori presentano invece volte a crociera, mentre in corrispondenza del transetto di aprono due coretti. Delle tre primitive absidi semicircolari è conservata soltanto quella mediana, fiocamente illuminata da tre monofore. Oltre a queste, forniscono debole luce alla chiesa anche le bifore della facciata, le strette feritoie tagliate lungo le pareti laterali e le originali finestre incurvate, disposte lungo la volta a botte della navata centrale.
L'altare maggiore è una aggiunta settecentesca.
Il campanile è stato realizzato innalzando il tiburio che sormontava la crociera della chiesa ed è decorato sul lato sud da una piccola bifora che è probabilmente quella originale della facciata (la bifora presente sulla facciata appare infatti visibilmente rifatta ed ingrandita per aumentare la luce all'interno della chiesa). E' curioso notare come questa crociera o transetto sia stata realizzata con l'elevazione della quarta campata delle tre navate. Questa elegante struttura, che dà origine ad una croce latina sviluppata in altezza ed avrebbe determinato in ciascuna navata novità di prospettive e particolari giochi di luci, non è più visibile dall'interno per la mozzatura operata da tre voltine, aggiunte per creare nei sottotetti locali di uso pratico.

L'Abbazia di Santa Fede di norma è sempre aperta al pubblico in orario diurno.


Chiesa cimiteriale di San Pietro a Brusasco

Il fianco sud e l'abside della chiesa di S. Pietro a Brusasco
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Il fianco sud e l'abside della chiesa di S. Pietro a Brusasco
La facciata di S. Pietro a Brusasco
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La facciata di S. Pietro a Brusasco
Particolare della facciata di S. Pietro a Brusasco
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Particolare della facciata di S. Pietro a Brusasco
La chiesa di S. Pietro è la più antica di Brusasco ed è considerata una delle più importanti testimonianze del romanico in Piemonte. La chiesa attuale fu costruita intorno all'anno Mille su una preesistente struttura del V-VI secolo, parti della quale, inglobate nella chiesa attuale, sono ancora visibili. La chiesa di S. Pietro svolse le funzioni di parrocchiale fino al 1592. Dopo un periodo di abbandono, verso la fine del 1600 fu adibita a cappella del cimitero e in essa fu aggiunto un nuovo altare, dedicato a S. Michele.

Originariamente la chiesa fu concepita a due navate, ma gli straripamenti del Po ed i lunghi periodi di abbandono causarono il crollo della navata nord, per cui oggi la chiesa si presenta con una unica navata.

Nuovamente abbandonata durante il XIX sec., nel 1889 la chiesa fu qualificata come monumento nazionale ed in seguito sottoposta a cospicui interventi di restauro. Altri restauri, molto recenti, hanno interessato il tetto, gli infissi e gli affreschi.

Di particolare pregio è la parte absidale, dove la dicromia tipica del romanico di tipo astigiano ben si sposa con i loggiati e le monofore.
La chiesa di S. Pietro, con le sue decorazioni, i coronamenti, le monofore, gli archi ed i costoloni bicromi, riprodotti in tutta la zona, costituisce l'esempio di romanico astigiano più a settentrione.
Caratteristica di questo stile è la presenza di blocchi di pietra arenaria, materiale litoide costituito da sabbie cementate dai sali di calcio derivanti dalle conchiglie in essa disciolte.


Castello e ricetto del Borgo del Luogo a Brusasco

La piazza del ricetto
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La piazza del ricetto
Il ninfeo nel parco del castello
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Il ninfeo nel parco del castello
Il castello del Borgo del Luogo di Brusasco
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Il castello del Borgo del Luogo di Brusasco
A sud del capoluogo ed in cima ad una collina si trova il Borgo del Luogo, frazione di Brusasco, nota anche col nome di Borgo Garibaldi. Il nome "Luogo" deriva dal latino lucus, ossia "bosco sacro". Qui nel medioevo, a difesa degli abitanti, sorse il primo nucleo del castello, a fianco del quale fu realizzato anche un ricetto, del quale rimangono molte testimonianze.
Fra queste si segnala la Porta di San Sebastiano, che era una delle due porte che consentivano l'accesso al ricetto del Luogo. Sulla Porta di San Sebastiano sono ancora visibili l'antica struttura merlata, l'accesso pedonale e l'accesso carraio. Di struttura molto simile doveva essere la porta Cerrone, che sorgeva nella posizione dell'attuale campanile della chiesa di San Bernardo. Meritevoli di essere ricordate sono anche le due chiese del Borgo del Luogo: La chiesa di S. Bernardo e la chiesa dell'Annunziata. Quest'ultima sorge sul poggio omonimo e nel 1600 fungeva da parrocchiale. Anche la chiesa dell'Annunziata sorge nei pressi di un cimitero, quello ancora oggi utilizzato dagli abitanti del Borgo del Luogo.
L'altra chiesa del Luogo, quella di S. Bernardo, fu quasi totalmente ricostruita quando la parrocchiale fu trasferita in pianura, nell'attuale capoluogo di Brusasco. L'edificio, opera anche questa dell'architetto Molino, è un pregevole esempio di barocco ed ingloba ancora, nelle parti posteriori, alcune porzioni della chiesa precedente, risalente al periodo gotico. L'edificio più imponente del Borgo del Luogo è il castello. La costruzione attuale risale alla metà del 1700 ed è attribuita all'architetto Giovanni Maria Molino, su commissione del Conte Cotti, musicista piuttosto noto a quell'epoca.
Tuttavia il castello ha origini molto più antiche, probabilmente risalenti al Trecento, come testimoniano alcune porzioni di muro costruite con pietre disposte a spina di pesce. La prima notizia documentabile sull'edificio risale al 22 settembre 1446, quando il castello fu dato in feudo ai fratelli Bonifacio, Bertolino e Giorgio dei Conti di Valperga. Il possesso dei Valperga terminò il 20 agosto 1504. Fra i tanti proprietari che si sono susseguiti, si ricorda Claudio Cesare Dodolo di Chieri, che diventò proprietario dell'edificio nel 1575, perché fu personaggio scontroso e superbo e perché, vista la precarietà abitativa del castello, andò ad abitare nella chiesa parrocchiale. Nel 1722 il castello passò in proprietà alla famiglia dei conti Cotti, che fece ricostruire il castello, affidandone i lavori al già citato architetto Giovanni Maria Molino.
Il nuovo edificio fu realizzato secondo i canoni più diffusi per le dimore signorili di campagna del Piemonte e sorse sull'area del giardino antistante l'antica struttura, ormai in rovina. Nel 1780 il conte Luigi Cotti, personaggio estroso, compositore di musica e amante del teatro, ereditando il castello, sistemò il parco secondo la tipologia all'inglese, sfruttando le rovine medievali e costruendo su di esse un falso ninfeo romano in rovina, quale ipotetico resto della residenza estiva dell'imperatore Pertinace.
Il castello si ingrandì ulteriormente con l'aggiunta della galleria sovrastata dall'ampio terrazzo e circondata dalle scenografiche gradinate di raccordo dei dislivelli del terreno, ad opera dell'architetto Vituli. La dinastia dei Cotti si estinse con la morte a Pietroburgo dell'ultimo discendente, Alessandro. Dopo vari passaggi di proprietà, nel 1874 il castello fu acquistato dal conte Gazzelli Brucco di Ceresole, che nel parco fece erigere un torrione di fattura neomedievale, secondo il gusto del tempo, con annessa cappella. Successivamente, e fino a circa il 1970, il castello rimase di proprietà dei Padri Marianisti, che lo collegarono al vicino collegio. Dopo 22 anni di abbandono totale il castello è ora di proprietà della famiglia Violi ed è adibito ad agriturismo.

Per le visite rivolgersi ai seguenti recapiti: Tel. 0119151106 e 3357444717 - Fax 0119187305 - E-mail: castellodibrusasco@tiscali.it


Fortezza di Verrua Savoia

Il Dongione della Fortezza di Verrua Savoia
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Il Dongione della Fortezza di Verrua Savoia
Rappresentazione storica di fronte all'ingresso nuovo della Rocca di Verrua Savoia
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Rappresentazione storica di fronte all'ingresso nuovo della Rocca di Verrua Savoia
L'ingresso alla fortezza di Verrua Savoia
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L'ingresso alla fortezza di Verrua Savoia
Storia
Le prime notizie su Verrua Savoia risalgono all'anno 999, quando l'imperatore Ottone III mediante un diploma confermò al Vescovo di Vercelli, Leone, vari beni territoriali, tra cui Verrua. Durante i secoli successivi l'insediamento fortificato subì numerosi assedi, distruzioni (celebre quella del 1167 ad opera di Federico Barbarossa) e ricostruzioni, in quanto era posto in un luogo di confine e quindi conteso tra il Vescovo di Vercelli, i Marchesi del Monferrato, i Visconti di Milano, le famiglie nobiliari vercellesi degli Avogadro e dei Tizzoni ed i conti e poi duchi di Savoia. Nel 1167 il Vescovo di Vercelli perse definitivamente il castello di Verrua, che passò nelle mani dei Marchesi del Monferrato fino al 1248, quando i Conti di Savoia si impadronirono del castello, ma non in maniera definitiva. I Savoia acquisirono stabilmente Verrua soltanto nel 1559, quando la fortezza si trovava ormai in pessimo stato di conservazione, con ampie parti delle mura distrutte e senza le porte. la fortezza in quel periodo era composta da tre parti distinte: il castrum, cioè la rocca vera e propria, posta in posizione più alta, in modo da dominare il territorio circostante, il castrum planum, insediamento abitato, fortificato anch'esso, dove erano presenti la pieve ed il cimitero, ed il borgo, ai margini del castrum planum, circondato da mura e da una serie di torri circolari. Si trattava però di un complesso scarsamente difendibile, in relazione all'evoluzione delle tecniche di assedio e lontano dall'essere quella macchina da guerra che diventerà nel corso del Seicento, tra le più importanti dello Stato, proprio perché posta al confine con il Marchesato del Monferrato ed in direzione del Ducato di Milano.

Nella seconda metà del Cinquecento soggiornò nel castello-fortezza di Verrua il poeta Torquato Tasso, giunto in Piemonte quale ospite di Filippo d'Este, genero del duca Emanuele Filiberto di Savoia.

Nel 1613 l'ingegnere Ercole Negro di Sanfront fece un sopralluogo a Verrua con l'obiettivo di ampliare ed ammodernare la fortificazione. Tuttavia si dovrà attendere la metà del secolo 1600 per vedere realizzata la nuova fortezza.

Nel 1625 il Duca di Feria, governatore di Milano, al comando di 25000 soldati spagnoli, tentò, dal 9 agosto al 17 novembre, di espugnare la fortezza, che era stata a torto ritenuta un ostacolo facilmente superabile in poco tempo, proprio perché disponeva di mura che non avrebbero potuto resistere a lungo al fuoco dei cannoni. A causa di errori tattici, ma anche del terreno accidentato, la cui conformazione non permetteva di effettuare un assalto efficace a meno di gravi sacrifici umani, gli spagnoli dovettero desistere dai loro propositi e furono successivamente allontanati dalle truppe franco-piemontesi, comandate dal duca Carlo Emanuele I.

Dal 1639 al 1642 il complesso fu coinvolto nelle lotte tutte interne al Ducato di Savoia fra Madamisti e Principisti. Dapprima conquistato dagli spagnoli, al comando del principe Tommaso di Savoia, che cercarono di migliorarne le difese aggiungendo un bastione, fu successivamente espugnato dall'esercito franco-piemontese nel 1642, tornando nelle mani della reggente del Ducato di Savoia, Madama Reale Cristina di Francia.

Nel 1656 vi fu un preciso intento di ampliare la fortezza in modo da renderla capace di resistere agli assedi portati con armi da fuoco sempre più evolute, per le quali le vecchie strutture erano diventate del tutto insufficienti. Il progetto, redatto da Carlo Morello, consisteva nell'ampliamento della fortificazione verso il borgo, essendo questa la parte maggiormente esposta all'offensiva nemica. Nuovi e più importanti lavori furono realizzati dal figlio, Michel Angelo Morello, come testimoniato da un disegno del 1670, dove sono visibili i nuovi bastioni edificati in fogge moderne, la cui realizzazione comportò la demolizione del borgo, in quanto la sua permanenza sarebbe stata pericolosa in caso di assedio.

Nell'ottobre del 1704, durante la guerra di successione spagnola, iniziò l'ultimo assedio subito dalla fortezza di Verrua, portato dalle truppe francesi comandate dal generale Vendôme e che costò la vita a circa 13.000 soldati. Questo assedio durò fino al 9 aprile 1705, oltre ogni previsione degli assedianti, che immaginavano di conquistare la fortezza al massimo prima dell'inverno. Le prime operazioni comportarono l'attacco alla collina di Carbignano, sulla quale era stato realizzato un altro forte ed una serie di trincee, che caddero dopo circa un mese di combattimenti, permettendo così procedere alla seconda fase e cioè all'assedio del più munito forte di Verrua, rimasto a questo punto senza le difese del forte costruito sulla prospiciente collina di Carbignano. I combattimenti durarono ininterrottamente, nonostante la rigidità dell'inverno, fino a quando i soldati rimasti nella fortezza dovettero arrendersi per mancanza di viveri e decisero di far saltare le fortificazioni, ad eccezione della rocca, dove si ritirarono. L'eroica e sfortunata resistenza di Verruca (questo il nome della località e della fortezza in epoca medievale e fino al Settecento), logorando le truppe francesi, permise al duca Vittorio Amedeo II di riorganizzare le truppe piemontesi e di giungere, nel 1706, alla vittoria contro i francesi nella memorabile battaglia di Torino, destinata a segnare le sorti della guerra e dell'Europa, insieme a quelle della dinastia dei duchi di Savoia, i quali, proprio grazie a questa vittoria, non solo non persero il Piemonte, ma addirittura diventarono re, avendo ottenuto in premio per la vittoria la corona reale di Sicilia prima e di Sardegna poi.

E' proprio questa, la rocca, l'unica porzione del complesso che ancor oggi possiamo vedere, assieme a qualche rudere dei bastioni più esterni e a qualche tratto delle gallerie di mina e contromina che erano presenti nel sottosuolo. Nel 1726 furono avanzate delle ipotesi di ricostruzione poiché fu richiesto all'ingegnere Ignazio Bertola un progetto che prevedeva la riedificazione quasi totale della piazzaforte, probabilmente non attuato per la diminuita importanza strategica che Verrua aveva assunto nel Settecento, in relazione alle nuove acquisizioni territoriali del Regno Sabaudo verso est (Novarese, Lomellina e Tortonese).

Nell'Ottocento il forte subì un radicale mutamento di destinazione, diventando una residenza nobiliare. Furono quindi effettuati quei lavori richiesti dalle cambiate esigenze d'uso: si demolirono il ponte levatoio, spostando l'ingresso nella posizione attuale, ed i fabbricati delle caserme, che occupavano i cortili, costruendo invece un piccolo edificio destinato a casa del custode. Il Palazzo del Governatore diventò quindi l'abitazione del marchese e fu decorato all'interno con affreschi e boiseries, mentre la collina divenne terreno agricolo, coltivato a vigna.

La storia più recente è contrassegnata dall'abbandono del complesso e dal suo progressivo deperimento. Nel 1955 i Marchesi d'Invrea vendettero l'edificio ad una ditta che estraeva dalla collina materiale per produrre cemento. A causa degli scavi effettuati mediante esplosivo, nel 1957 una enorme frana travolse un'abitazione sotto la collina, causando sette vittime e distruggendo persino parte del ponte sul Po. La frana fece inoltre crollare una parte molto vasta del complesso della fortezza di Verrua, mentre altre parti, rese pericolanti dalla frana, furono demolite. Tra queste fu demolita anche la chiesa di S. Giovanni Battista Martire, mentre il grande pozzo, largo più di 3 metri e profondo quasi 100 metri, fu riempito con i detriti prodotti dalle demolizioni e dai crolli.

Attualmente ciò che rimane del grandioso complesso della fortezza di Verrua Savoia, che è proprietà privata, è stato concesso in comodato d'uso al Comune di Verrua, che ne sta promovendo la conservazione e la fruizione.

Gli esterni della fortezza sono sempre visitabili dal pubblico. In alcune domeniche dalla primavera all'autunno il Comune organizza visite guidate comprensive degli ambienti interni. Per informazioni e prenotazioni di visite guidate Tel. 0161849144.

Per approfondimenti:
- Viglino Davico Micaela (cur.), La piazzaforte di Verrua, Omega Edizioni / Regione Piemonte, Torino, 2001.
- Padovan Davide, Padovan Gianluca, Bordignon Lodovico, Ottino Massimo, La fortezza di Verrua, in Atti del IV Convegno nazionale sulle cavità artificiali, Osoppo, 1997.
- Ogliaro M., La fortezza di Verrua Savoia nella storia del Piemonte, Mongiano Editore, Crescentino, 1999.

Ponte sul Po di Verrua Savoia

L’ottocentesco ponte sul Po di Verrua Savoia
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L'ottocentesco ponte sul Po di Verrua Savoia
Quello di Verrua Savoia è il più antico ponte sul Po superstite nell'intero tratto di fiume compreso tra Torino e Valenza (gli altri ponti sono stati tutti distrutti durante la seconda guerra mondiale o a causa delle alluvioni e in seguito riedificati, per lo più in forme moderne). Il ponte di Verrua mette in collegamento le colline del Monferrato con Crescentino e la pianura vercellese. La struttura fu edificata in laterizio nel 1898, è lunga 462 metri ed ha 18 arcate.

Torre civica di Crescentino

La torre civica di Crescentino
La torre civica di Crescentino
Situata in Piazza Vische (detta anche Piazza della Torre), al centro della cittadina, sulla quale fino all'inizio del Seicento si affacciava il Palazzo della Famiglia Tizzoni, distrutto da un incendio nel 1529, la torre civica ha base quadrata e fu edificata totalmente in mattoni tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo.
Caratteristici sono gli otto finestroni sommitali con archi a doppia apertura, a tendenza ogivale nella parte esterna. Nella cella campanaria della torre si conserva la più grande campana della provincia di Vercelli, chiamata la "Crescentina", dal peso di 25 quintali e forgiata dai fratelli Mazzola di Valduggia nel 1958.

Chiese delle Confraternite a Crescentino

Fra il XVI ed il XVII secolo a Crescentino furono costruite tre chiese di confraternite, tuttora esistenti e visitabili.

La Chiesa della Confraternita di San Michele, risalente al 1569, è ad una navata unica, adorna di pregevoli stucchi. Sotto l'arcone che precede il presbiterio si trova uno stemma ligneo policromo, con le insegne araldiche di Casa Savoia, sul presbiterio si affacciano due nicchie: in quella di destra vi è l'altare contenente la statua dorata di San Michele, mentre in quella di sinistra vi è la Vergine dei Sette Dolori.
La Chiesa della Confraternita di San Giuseppe, costruita tra il 1693 ed il 1708, è ricca di affreschi e preziose opere d'arte. Sulle pareti è rappresentata la vita di San Giuseppe, opera di Carlo Martini del 1860. Nel coro si trova la Natività, realizzata da Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo, nel 1589.
La Chiesa della Confraternita di San Bernardino fu riedificata alla fine del XVI secolo. Nel 1610 furono rifatti il campanile e la facciata. Nel 1669 fu costruito il meraviglioso altare ligneo dorato, che contiene una pala raffigurante la Circoncisione, risalente al 1667. La spettacolare facciata risale invece al 1722. In essa si trovano le statue di San Bernardino, Santo Stefano, San Carlo Borromeo, San Francesco e San Crescentino.

Per informazioni sulle modalità di visita: Parrocchia di Crescentino, Tel. 0161843315.

Ponte-Canale Cavour a Saluggia

Il Canale Cavour sopra la Dora Baltea
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Il Canale Cavour sopra la Dora Baltea
Il Ponte-Canale Cavour
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Il Ponte-Canale Cavour
Il Canale Cavour, che ha origine dal Po a Chivasso, costituisce una sorta di "spina dorsale" di un'estesa rete di canali che ha consentito la trasformazione e lo sviluppo di un territorio di circa 300.000 ettari, compreso fra i fiumi Dora Baltea, Ticino e Po.
Il Canale Cavour, che annovera 101 ponti, 210 sifoni e 62 ponti-canale, è una infrastruttura grandiosa, ricca di opere architettoniche e ingegneristiche all'avanguardia.
Tra i manufatti più importanti e significativi che si trovano lungo il percorso del Canale Cavour, ci sono i ponti-canale, necessari per sovrappassare il corso del fiume Dora Baltea e quello dei torrenti Cervo, Rovasenda e Marchiazza. Il primo ed il più importante dei ponti-canale si trova nel territorio comunale di Saluggia e fu costruito per consentire al Canale Cavour di sovrapassare la Dora Baltea.
Il Ponte-Canale Cavour a Saluggia si presenta con una architettura imponente in mattoni ed con ampie arcate. Il progetto del ponte-canale si deve all'ingegnere Carlo Noè e risale al 1854, mentre la costruzione dell'opera è avvenuta fra il 1863 ed il 1866.

A valle del ponte-canale di Saluggia, a poco più di un chilometro da questo, le acque dalla temperatura mite del Canale Cavour vengono integrate con le acque gelide della Dora Baltea, trasportate dal Canale Farini che termina il suo corso dentro il Canale Cavour.

Il Ponte-Canale Cavour è proprietà della Coutenza Canali Cavour (Novara, Tel. 0321675211).


Presa del Canale Farini a Saluggia

La Presa del Canale Farini a Saluggia
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La Presa del Canale Farini a Saluggia
La Presa del Canale Scolmatore a Saluggia
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La Presa del Canale Scolmatore a Saluggia
All'interno della Riserva Naturale Speciale dell'Isolotto del Ritano, nel territorio comunale di Saluggia, in località Dorona, esiste un interessantissimo sistema di sbarramenti, bacini, canali ed edifici di presa, vero gioiello di ingegneria ed architettura idraulica ottocentesca. Qui una lunga traversa in pietra e legno realizzata sul letto del fiume Dora Baltea crea un vasto bacino artificiale, la cui acque alimentano due canali, dagli scopi e dalle caratteristiche molto differenti e molto apprezzati per sport acquatici come il kayak e l'hydrospeed.

Il canale più importante che ha origine dal bacino anzidetto è il Canale Farini. Intitolato a Luigi Carlo Farini, Primo Ministro del Regno d'Italia, per il suo lungo interessamento all'area risicola, il Canale Farini è un'opera singolare nella complessa rete irrigua vercellese. Il Canale Farini fu realizzato nel 1868 per incrementare la portata del Canale Cavour, il quale, scavato appena due anni prima, aveva subito manifestato i limiti di una presa d'acqua esclusivamente dal Po, soprattutto in occasione di estati torride. Grazie al Canale Farini le fredde, ma abbondanti acque della Dora Baltea confluiscono nel Canale Cavour tra Saluggia e Crescentino, mescolandosi con le più calde acque del Po prelevate a Chivasso e permettendo così una portata adeguata al Canale Cavour anche in caso di magre eccezionali del Po.
Il Farini è un canale corto (poco più di tre chilometri è la sua lunghezza), ma con la portata impressionante di ben 70 metri cubi d'acqua al secondo. La sua sezione, ampia quasi come il letto del fiume Dora Baltea da cui deriva, colpisce tanto quanto l'opera di presa, che ha caratteristiche monumentali. La Presa del Canale Farini è infatti un'opera imponente, costruita in laterizio a due piani e con tetto ricoperto di "lose" in gneiss. Il piano superiore, in acciottolato, è transitabile con veicoli e conduce all'abitazione del custode. Il piano inferiore (chiamato "sottochiavica"), con belle volte in mattoni e pavimentazione con lastre di gneiss, serve quale disimpegno.

Nei pressi della Presa del Canale Farini si trova anche la Presa del Canale Scaricatore, struttura che dà origine ad un canale dalle acque in genere rapide e vorticose. Il Canale Scaricatore è lungo circa un chilometro e scorre parallelo al corso della Dora Baltea, formando con questa l'Isolotto del Ritano, che dà il nome alla Riserva. Il Canale Scaricatore fu costruito nello stesso periodo del Canale Farini, per restituire alla Dora Baltea le acque in eccesso del bacino creato per alimentare il Canale Farini. E' dunque evidente la diversità di scopo dei due canali: il Canale Farini ha finalità irrigue, il Canale Scaricatore ha invece finalità di "sfogo" idraulico e le sue acque non hanno alcuna possibilità di utilizzo irriguo.

Gli edifici di presa dei Canali Farini e Scolmatore sono proprietà della Coutenza Canali Cavour (Novara, Tel. 0321675211) e pertanto, all'infuori di speciali occasioni, sono visibili al pubblico soltanto dall'esterno.

Per approfondimenti:
Borgia Massimiliano (cur.), Le risaie del Vercellese, guida al paesaggio, alla storia, alla natura delle terre d'acqua, G.S. Editrice - Regione Piemonte, Asti, 2003.

Elevatore Idraulico a Villareggia

Le condotte dell'Elevatore Idraulico a Villareggia
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Le condotte dell'Elevatore Idraulico a Villareggia
L'Elevatore Idraulico ed il Canale Depretis a Villareggia
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L'Elevatore Idraulico ed il Canale Depretis a Villareggia
A valle della Presa del Canale Depretis si trovano l'edificio e le condotte di un importante Elevatore Idraulico (detto "di Cigliano"), che svolge un ruolo fondamentale nell'economia agraria della zona.
Nel 1878, per iniziativa di don Evasio Ferraris (già cappellano militare, che nel 1851 era stato nominato viceparroco di Moncrivello), si costituì il consorzio dei proprietari interessati alla costruzione di un impianto d'irrigazione che permettesse l'innalzamento, di almeno 20 metri, di una portata di circa 1000 litri d'acqua al secondo, prelevati dal Naviglio d'Ivrea, per irrigare aree non ancora servite dalla rete dei canali esistenti. Fra i vari progetti presentati fu scelto quello dell'ingegner Locarni di Vercelli, che prevedeva un sistema piuttosto complesso di prelievo e sollevamento delle acque, sfruttando i 3 canali Depretis, del Rotto e Naviglio d'Ivrea.
Il progetto che fu realizzato si basa su una stazione di pompaggio più bassa di circa 20 metri rispetto al Naviglio d'Ivrea: le acque qui convogliate da apposita condotta risalgono poi alla stessa quota di partenza per forza naturale (principio dei vasi comunicanti) e sono sospinte ancora più in alto, fino all'altopiano di Cigliano, per opera di due turbine azionate da una portata di 7 metri cubi al secondo del Canale Depretis, transitante in prossimità, ma ad un livello leggermente più alto. Le acque del Depretis vengono poi scaricate nel Canale del Rotto, a livello ancora più basso del Depretis. In tal modo l'innalzamento di 20 metri di parte delle acque del Naviglio di Ivrea avviene sfruttando l'energia idraulica del Canale Depretis e dunque senza utilizzo di energia elettrica.
I lavori furono terminati nel 1882. Il costo di realizzazione, di circa 160.000 lire dell'epoca (oltre 500 mila euro attuali) fu sostenuto per intero dai membri del consorzio irriguo. L'amministrazione delle Regie Finanze concesse gratuitamente, con obbligo di restituzione, la portata d'acqua del Canale Depretis, necessaria per la sollevazione delle acque del Naviglio d'Ivrea. Per la derivazione delle acque dal Naviglio d'Ivrea si applicarono invece i prezzi in vigore.
L'Elevatore idraulico è un'opera di notevole valenza tecnica, per il periodo in cui fu realizzato, e di fondamentale importanza ancora oggi per l'irrigazione di un comprensorio agricolo di 1100 ettari (4000 giornate piemontesi), nei comuni di Cigliano, Moncrivello, Villareggia e Borgo D'Ale, che si trovano a quote altimetriche più alte di qualunque fiume o canale della zona e dunque non potrebbero essere diversamente irrigati.

L'Elevatore Idraulico è proprietà della Coutenza Canali Cavour (Novara, Tel. 0321675211) e pertanto è visibile al pubblico soltanto dall'esterno.


Presa del Canale Depretis a Villareggia

La Presa del Canale Depretis a Villareggia
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La Presa del Canale Depretis a Villareggia
L'ingresso alla Presa del Canale Depretis
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L'ingresso alla Presa del Canale Depretis
Il Canale Depretis è più antico dei Canali Cavour e Farini, poiché risale alla seconda metà del Settecento, quando il re Vittorio Amedeo III destinò alla costruzione di canali irrigui le somme ricavate dalla vendita dei beni dei Gesuiti, incamerati dallo stato sabaudo dopo la soppressione del loro ordine.
In soli quattro mesi fu scavato e messo in funzione il canale che, dipartendosi dalla Dora Baltea a valle di Mazzè e Villareggia, si dirige verso est, attraversando i territori di Cigliano, Bianzè, Santhià e Carisio e terminando il proprio corso gettandosi dentro l'Elvo. Questo canale, ultimato nel 1785, ebbe inizialmente il nome di Canale di Cigliano e soltanto nel 1887 fu rinominato Canale Depretis.
Questo canale, più di altri, segna l'inizio della gestione collettiva dell'irrigazione vercellese.
Qualche anno dopo la sua realizzazione, dal Canale di Cigliano si fece derivare il Naviletto di Saluggia, per portare ulteriore acqua a Livorno Ferraris, Lamporo, Crescentino, Fontanetto e Colombara, crocevia dell'attuale sistema irriguo del basso vercellese.
L'edificio di presa del Canale Depretis, nel territorio comunale di Villareggia, è meno monumentale degli edifici di presa dei Canali Cavour e Farini, ma è ugualmente interessante, sia per la sua posizione al centro dell'avvallamento fluviale della Dora Baltea, circondato da alte colline e folti boschi, sia per la tipologia costruttiva, piuttosto leggera e con caratteristico tetto di lastre di pietra ("lose").

L'edificio di presa del Canale Depretis è proprietà della Coutenza Canali Cavour (Novara, Tel. 0321675211) e pertanto è visibile al pubblico soltanto dall'esterno.

Per approfondimenti:
Vassallo Nicola (cur.), Dal naviglio del Duca ai consorzi irrigui, Centro Culturale G. Arpino, Bra, 1989.

Castello di Mazzè

Il castello di Mazzè
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Il castello di Mazzè
La Dora Baltea, le Alpi canavesane ed il castello di Mazzè (in alto a destra)
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La Dora Baltea, le Alpi canavesane ed il castello di Mazzè (in alto a destra)
Particolare del "castello piccolo" a Mazzè
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Particolare del "castello piccolo" a Mazzè
Torretta angolare nelle mura del castello di Mazzè
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Torretta angolare nelle mura del castello di Mazzè
Storia
Il complesso del castello di Mazzè è situato sulla sommità della collina morenica su cui si adagia l'omonimo paese, quasi al centro del Canavese, a dominio sia della forra entro cui scorre la Dora Baltea, sia delle piane di Ivrea, a nord, e di Chivasso, a sud.
Il sito su cui sorge il castello fu occupato già in epoca celtica, come attestano il menhir e l'ara riportati da poco alla luce. Di epoca romana sono invece i resti (visibili nei sotterranei del castello) del "Fortem Copacium", eretto nel 175 a.C. dal Console Appio Claudio, quale presidio romano contro i Salassi, bellicoso e fiero popolo celtico che abitava nel Canavese ed in Valle d'Aosta e che cercava di contrastare, con poco successo, l'avanzata romana nelle proprie terre.
Nel 1141 l'imperatore Enrico IV di Sassonia investì del feudo di Mazzè la famiglia ghibellina dei Valperga, che in seguito si dividerà in ramo Valperga di Valperga e ramo Valperga di Mazzè. Risale a questo periodo la trasformazione del forte romano (il "Fortem Copacium") in prigione, trasformazione voluta dai conti di Valperga.
Nel 1316 i Valperga elevarono sui ruderi romani, da due secoli trasformati in prigione, un castello, al quale fu affiancata, poco dopo, una casa-forte, oggi trasformata in dimora (il cosiddetto "castello grande"), adiacente al più antico "castello piccolo".
A partire dal Quattrocento il feudo ed il castello di Mazzè seguì le sorti dello stato sabaudo. Nel 1515 il castello fu temporaneamente occupato dal re di Francia Francesco I. In questo periodo la struttura era ormai diventata un maniero di campagna, senza altra utilità militare se non quella di ospitare una piccola guarnigione sabauda.
Il castello fu proprietà dei conti Valperga, ramo di Mazzè, dal 1141 fino al 1840. In seguito la proprietà passò ai conti Brunetta d'Usseaux, antica famiglia nobile francese originaria dell'Alvernia, dal XVII secolo passata al servizio dei Savoia. Eugenio Brunetta d'Usseaux, che abitò nel castello dal 1850 al 1919, fece eseguire profondi lavori di restauro e rifacimento, sia nella parte più antica posta verso la Dora, edificata nel 1317 sulle rovine della preesistente prigione, sia nella casaforte posta a ovest, col tempo divenuta pertinenza agricola, conferendo in tal modo al complesso l'aspetto attuale. Sotto la direzione dell'architetto Giuseppe Velati-Bellini, modificando le strutture preesistenti, dal 1897 al 1907 furono realizzati due manieri di fattura squisitamente neo-gotica, con un cortile ed un parco, esteso sino al fiume, che conservano ancora oggi tutta la loro bellezza. Dopo la morte di Eugenio Brunetta d'Usseaux (1919), primo e finora unico italiano ad essere stato segretario del Comitato Olimpico Internazionale (dal 1908 al 1919), i due castelli furono abbandonati e l'archivio del C.I.O., qui conservato, andò disperso.
Nel 1859 la struttura ospitò il re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, che qui si era recato per studiare come contenere l'offensiva austriaca durante la seconda guerra d'indipendenza. Nel castello soggiornò anche lo zar Nicola II, in viaggio in Piemonte. Durante la seconda guerra mondiale il castello fu sede del comando tedesco di zona e qui, nel maggio 1945, fu firmata la resa delle truppe tedesche al comando delle forze alleate, che avevano nel frattempo occupato anche il Piemonte ed il Canavese.
Dopo anni di abbandono, da alcuni decenni il castello è passato in proprietà alla famiglia Salino di Cavaglia, che ha recuperato e restaurato il castello e il grande parco.

Visita
Il complesso del castello di Mazzè è suddivisibile in due parti: il "castello piccolo", ad oriente e risalente al Trecento, ed il "castello grande", a occidente e risalente al Quattrocento, ma con rifacimenti neogotici eseguiti nell'Ottocento. All'interno del castello grande sono da vedere gli affreschi di stile neogotico, opera di Romolo Bernardi, dipinti nel portale d'onore, nelle pareti dello scalone e nella sala del trono. Notevoli gli intarsi eseguiti, sempre nella sala del trono, da Carlo Arboletti, ed il camino in pietra costruito dai fratelli Catella. Degni di nota infine i soffitti della sala da musica e nel salone gotico, eseguiti dal pittore Giovanni Beroggio. A pochi metri dal Salone delle Armi si trova il Rivellino, primario bastione difensivo posto sull'ingresso principale del Castello e che offre una notevole vista su Monferrato, Canavese, Vercellese, Dora Baltea, Torino, Superga, Monviso, Gran Paradiso e gran parte dell'arco alpino occidentale.
Nei sotterranei sono visibili le prigioni e la ghiacciaia, del XIV sec., i resti romani con la cisterna d'assedio del II sec. a.C., la "cripta celtica" del X sec. a.C., e la cappella funeraria del XV sec.
Da alcuni anni nei sotterranei del castello è stato inoltre allestito il Museo della Tortura, che ospita oggetti provenienti in gran parte dalla Spagna, ma anche da altri paesi europei. La collezione si sviluppa su circa 500 mq. sotterranei, dotati di un suggestivo sistema di illuminazione e diffusione sonora e controllati da telecamere a circuito chiuso.
Il castello è dotato di un grande parco, che dalla sommità della collina scende quasi fino alla riva della Dora Baltea. Anche il parco, come il castello, è posto sotto tutela, in base alla legge n. 1497 del 1939, quale monumento paesaggistico naturale. All'interno del parco si trova un percorso segnalato, che si sviluppa per più di 5 km e con inizio in discesa, ideale per escursioni tra boschi di querce, faggi e frassini, splendidi scorci panoramici sul sottostante fiume Dora Baltea, ruderi romanici e aree d'interesse botanico.
Oltre al vasto parco, all'interno delle mura di recinzione del castello si trovano anche la grande piazza d'armi, i giardini interni con piante pregiate e un'ampia terrazza, da cui si gode uno splendido panorama.

Il castello è visitabile al sabato, domenica e festivi, dalle 14.30 alle 17.30, tranne nei mesi di dicembre e gennaio. Prezzi: Parco Euro 3, Castello Grande Euro 6, Museo della Tortura Euro 6, Castello + Museo Euro 8, Castello + Museo + Parco Euro 10.
Per informazioni: Tel. e Fax 0119835250 - E-mail: info@castellodimazze.it - Sito internet: www.castellodimazze.it


Chiesa dei Santi Gervasio e Protasio a Mazzè

La chiesa parrocchiale ed il castello di Mazzè visti dal ponte sulla Dora
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La chiesa parrocchiale ed il castello di Mazzè visti dal ponte sulla Dora
Il campanile della chiesa dei santi Gervasio e Protasio
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Il campanile della chiesa dei santi Gervasio e Protasio
Il campanile della chiesa dei santi Gervasio e Protasio
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Il campanile della chiesa dei santi Gervasio e Protasio
La chiesa parrocchiale di Mazzè, dedicata sin dai tempi più antichi ai Santi Gervasio e Protasio, fu costruita prima del 1286 (quando viene citata per la prima volta in un documento).
Secondo le fonti orali medievali, in seguito trascritte, la chiesa in origine fungeva come una sorta di cappella privata per i feudatari locali ed i loro coloni e servitori, con giurisdizione religiosa limitata al castello ed alle sue dirette dipendenze. Come luogo di culto aperto al pubblico e con giurisdizione su tutto il teritorio, la si trova citata per la prima volta nel 1349, quando alla chiesa dei Santi Gervasio e Protasio fu unita la chiesa di San Lorenzo, una delle più antiche parrocchie di Mazzè. Questo però non significa che soltanto a partire da quell'epoca la chiesa abbia svolto una funzione spirituale rivolta a tutta la comunità, funzione che invece, probabilmente, aveva già da tempo assunto.
E' in ogni caso accertato che la struttura primitiva della chiesa avesse dimensioni molto modeste e semplici, mentre la chiesa che si può osservare oggi è il risultato di numerosi interventi e di profonde trasformazioni operate nel tempo, fra cui l'abbassamento di oltre un metro dell'originario piano basale della chiesa primitiva.
La chiesa dei Santi Gervasio e Protasio si trova sulla sommità della collina morenica di Mazzè, ai piedi del castello e in posizione rialzata rispetto al piano stradale, con sviluppo est-ovest e con vista che spazia sulla pianura vercellese fino a scorgere, nei giorni di piena visibilità, la cupola di San Gaudenzio a Novara.
Alla chiesa si accede attraverso un'ampia gradinata. La facciata, in stile barocco, ha la sommità a forma di semicerchio sensibilmente ripiegato alle estremità, per poggiare sul muro frontale. Sopra il portale di ingresso, all'interno di un riquadro a forma di trapezio, è raffigurato uno scudo col leone rampante in campo azzurro. Più in alto, all'interno di una cornice ovale, si trova l'immagine della Beata Vergine Assunta, circondata da angeli e protetta dai Santi Gervasio e Protasio. Quattro grosse anfore in terracotta, tipiche delle decorazioni barocche canavesane, adornano la parte superiore della facciata, sulla cui cima è murata una grande croce in ferro.
L'interno della chiesa è in stile basilicale a tre navate, di cui quella centrale più imponente, meno grandiose quelle laterali. L'allineamento dei pilastri piuttosto irregolare e la piattaforma, su cui poggiano il presbiterio, il coro e la sagrestia, sollevata di otto gradini rispetto al piano generale, rivelano le trasformazioni subite dalle chiesa, con i rimaneggiamenti delle strutture preesistenti e l'aggiunta di nuove struttre.
Tra le opere di maggiore interesse all'interno della chiesa vi sono l'altare maggiore, cui si accede salendo un'ampia gradinata marmorea disposta a semicerchio, e la tela che lo sovrasta, raffigurante la B.V. Assunta con gli angeli e santi patroni, opera del pittore Visetti di Montanaro.
Nella navata sinistra, entrando, si incontra subito il battistero, seguito da altri altari minori. Il primo è l'altare del Sacro Cuore, con un pregiato dipinto del Morgari. Seguono gli altari delle Figlie di Maria, con la raffigurazione dell'Immacolata insieme a Sant'Agnese, e, per ultimo, l'altare della Madonna delle grazie, con l'effigie racchiusa in una nicchia, alla quale fanno da corona i quindici misteri ed ai fianchi le statue di San Domenico e di Santa Caterina.
Nella navata destra si trovano, all'inizio, la statua di Maria Assunta, di pregiata fattura e proveniente dalla Val Gardena. Seguono gli altari dell'Immacolata, di Santa Marta e, per ultimo, l'altare detto "del castello", che raccoglie il sepolcro del conte Francesco Valperga, ultimo discendente della nobile famiglia canavesana, che si estinse in linea maschile nel 1840.
Le pareti, il soffitto e tutti gli interni furono completamente restaurati dal parroco don Lorenzo Bocca nel Novecento, mentre le attuali decorazioni furono eseguite nel 1948 dal pittore Giovanni Comoglio di San Giorgio Canavese.
All'interno della chiesa sono inoltre degni di menzione le rappresentazioni della Via Crucis in stile goticheggiante, scolpite in legno da artisti della Val Gardena e gli splendidi lampadari in vetro di Murano.
Accanto alla chiesa sorge il campanile, già torre civica, costruito nel 1744 da Giovanni Massa di Caluso.

Castello dei Biandrate a Foglizzo

Il Castello di Foglizzo visto da occidente
Castello di Foglizzo visto da occidente
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Il Castello di Foglizzo visto da occidente
Uno scorcio del Castello dei Biandrate e del suo parco
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Uno scorcio del Castello dei Biandrate e del suo parco
Il Castello di Foglizzo visto da oriente
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Il Castello di Foglizzo visto da oriente
Il nome di Foglizzo deriva da Silva Fullicia, nome che identificava l'estesa foresta che ricopriva la zona in epoca tardoromana e alto medievale.
Il castello di Foglizzo si trova su un poggio collinare che si incunea all'interno del paese, sul quale probabilmente già in epoca tardoromana sorgeva una fortificazione.

Nel 1355 Foglizzo diventò feudo dei conti di Biandrate, provenienti dal novarese e che fissarono nella vicina San Giorgio Canavese il loro nuovo centro di potere e governo. L'esistenza di un "castrum" (ossia castello di difesa e rifugio) è già citata negli statuti comunali concessi ai foglizzesi dai Biandrate nel 1387.

Le prime modifiche al maniero difensivo medievale furono apportate nel Cinquecento, seguendo canoni rinascimentali.
Tra Seicento e Settecento il castello subì ulteriori radicali modifiche, per essere trasformato nella villa residenziale estiva dei conti Biandrate di San Giorgio Canavese, assumendo l'aspetto che ancora oggi si osserva. Contemporaneamente il ricetto medievale annesso al castello fu demolito per fare spazio al giardino.

Nel 1885 il castello di Foglizzo fu acquistato dal Comune, che lo utilizza ancora oggi come sede del municipio.
L'interno del castello è dotato di numerose sale, ricche di decorazioni, affreschi con emblemi, soffitti a cassettoni ed a travature lignee impreziositi da disegni vivaci o con volte a vela, anch'esse affrescate.
Anche all'esterno il castello presenta alcuni elementi decorativi e con un tratto di fregio in cotto.
Il cortile asimmetrico, che ha al centro un pozzo, presenta un notevole aspetto scenografico grazie al loggiato degli atrii a colonne, con portali barocchi e fregi alle pareti.

Il Castello dei Biandrate è sede del municipio di Foglizzo. Le sale sono visitabili solo su prenotazione, Tel. 0119883501.


Complesso abbaziale di Montanaro

La Chiesa parrocchiale di San Nicolao e Santa Marta
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La Chiesa parrocchiale di San Nicolao e Santa Marta
Il campanile del complesso abbaziale di Montanaro
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Il campanile del complesso abbaziale di Montanaro
Scenografico esempio di architettura religiosa barocca, il complesso abbaziale di Montanaro è costituito da tre strutture: la chiesa parrocchiale di San Nicolao e Santa Marta, la chiesa di Santa Marta propriamente detta ed il campanile, tutti contigui ed affacciati sulla medesima piazza.
Sul luogo in cui sorge l'attuale chiesa parrocchiale esisteva già precedentemente un'antica cappella medievale, distrutta da un incendio nel 1641. La nuova chiesa fu costruita dal 1644 al 1649 su disegni di Carlo Morello, ingegnere di Pavia al servizio del duca di Savoia Carlo Emanuele II.
La chiesa fu successivamente ampliata con lavori che iniziarono nel 1757 e terminarono nel 1765 su disegni di Bernardo Antonio Vittone.
La pianta della chiesa è a croce latina, con una unica navata coperta da una volta a botte con cupola, e con pavimento e colonne in marmo. Fra le opere di pregio artistico sono da segnalare il pulpito e gli armadi della sagrestia, disegnati dal Vittone ed intagliati da Pietro Antonio Actis di Rodallo nel 1769, l'altare marmoreo di San Sebastiano e la balaustra dell'altare maggiore, opere costruite dall'architetto Mario Ludovico Quarini dal 1773 al 1781.
La facciata si presenta a due ordini, collegati da un cornicione aggettante.
La chiesa di Santa Marta, sempre del Vittone, fu costruita nella forma attuale negli anni 1744-1748.
Sulla facciata si trova una doppia rampa di scale coperta, che conduce all'ingresso della chiesa. L'interno, costituito da una piccola navata, conserva una notevole pala d'altare che raffigura con crudo realismo la decapitazione di San Giovanni Battista.
Il campanile barocco, disegnato anch'esso dal Vittone e dal suo discepolo Quarini, e costruito dal 1769 al 1771, è alto 47,60 metri ed ha al suo interno una scala a chiocciola elicoidale.
Di fronte alla parrocchiale si trova una pregevole casa medievale.

La chiesa parrocchiale è visitabile nei seguenti orari: 7.30-12 e 15-18
La chiesa di S. Marta è visitabile solo di domenica, con orario 15-18
Prenotazioni presso la parrocchia, Tel. 0119160458.

Per approfondimenti:
- Boggio Camillo, Le chiese del Canavese, Viassone, Ivrea, 1910.

Abbazia di Fruttuaria e ricetto a San Benigno Canavese

Il campanile romanico dell'Abbazia di Fruttuaria
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Il campanile romanico dell'Abbazia di Fruttuaria
La facciata neoclassica dell'Abbazia di Fruttuaria
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La facciata neoclassica dell'Abbazia di Fruttuaria
Monumento al Cardinale delle Lanze
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Monumento al Cardinale delle Lanze
La torre-porta di accesso al ricetto di S. Benigno
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La torre-porta di accesso al ricetto di S. Benigno
Il centro storico di San Benigno presenta un notevole complesso architettonico, che vide la luce intorno al Mille per volontà di Guglielmo da Volpiano, monaco e abate riformatore.
Gli elementi rimasti testimoniano che nel medioevo San Benigno era un borgo fortificato (un ricetto), con strutture difensive a pianta pseudopentagonale, delimitato da una roggia in funzione di fossato. Gli spigoli del poligono erano difesi da torri cilindriche, di cui è rimasto un solo esemplare.
Perfettamente conservata, invece, è la torre-porta quadrata di accesso al ricetto da oriente. La facciata della torre rivolta all'esterno presenta decorazioni in cotto, mentre la porta di accesso a sesto acuto che si apre alla base della torre reca i segni ancora visibili delle fenditure che servivano per manovrare i bolzoni del ponte levatoio. Le case, che costituiscono il tettuto urbano all'interno del poligono, hanno subito profonde trasformazioni e solo alcune presentano ancora elementi medievali.
All'interno del ricetto sorge l'antica complesso abbaziale di Fruttuaria, che presenta elementi costruiti in epoche differenti.
La famosa abbazia cluniacense di Fruttuaria fu eretta tra il 1003 ed il 1007 dall'abate-conte Guglielmo da Volpiano. In essa, all'epoca la chiesa più importante del Canavese, nel 1014 vestì l'abito monacale e nel 1015 morì Arduino d'Ivrea, già re d'Italia.
L'abbazia di Fruttuaria fu per secoli autonoma, potente e ricca. Dal punto di vista politico-amministrativo le terre dell'abbazia, che possedeva anche i vicini paesi di Lombardore, Feletto e Montanaro, erano autonome e non assoggettate ad alcuna signoria locale. Dal punto di vista religioso ed ecclesiastico l'abbazia era direttamente soggetta alla Santa Sede, cioè non rientrava nei confini di alcuna diocesi.
Sul finire del medioevo iniziò la decadenza dell'abbazia, che nel 1477 fu costituita a commenda.
I tentativi di risollevare il prestigio e la potenza dell'abbazia, portati avanti dal Cardinale Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze, che nel 1749, investito di questa abbazia, ordinò di costruire un nuovo palazzo abbaziale e una nuova e sontuosa chiesa al posto di quella medievale, furono vanificati del tutto il 1 giugno 1803 (epoca napoleonica), quando il monastero fu soppresso con bolla papale di Pio VII ed i suoi beni, territori e giurisdizione attribuiti alla diocesi di Ivrea.
Il 19 marzo 1990, festività di S. Giuseppe, durante la sua visita alla diocesi di Ivrea, il papa Giovanni Paolo II celebrò nell'abbazia di Fruttuaria una messa in onore dei lavoratori della terra.
Le indagini archeologiche hanno permesso di scoprire gran parte dello schema planimetrico della chiesa primitiva medievale ed i resti dei muri con i relativi intonaci e le pavimentazioni, costituite da raffinati mosaici con tessere bianche e nere dell'XI secolo, rappresentanti animali simbolici con foglie e motivi geometrici ornamentali.
L'attuale chiesa del complesso abbaziale, che funge anche da parrocchiale, è dedicata a Santa Maria Assunta e fu eretta da Mario Ludovico Quarini, che nel 1770 rimaneggiò parzialmente i progetti di rifacimento elaborati dal suo maestro Bernardo Antonio Vittone. La nuova chiesa fu inaugurata il 25 marzo 1776.
La facciata della chiesa è preceduta da un monumentale pronao tetrastilo corinzio di epoca neoclassica.
La chiesa attuale è a croce latina con ampia cupola. Al suo interno sono rilevanti la piccola rotonda del Santo Sepolcro al centro della croce, lo "scurolo" (una sorta di cripta che custodisce le urne con le reliquie dei Santi Martiri Tiburzio, Primo e Feliciano e la tomba del Cardinale delle Lanze), il maestoso altare marmoreo con fregi in metallo dorato, coperto da baldacchino sorretto da quattro colonne tortili in marmo verde di Susa, costruito ad imitazione del baldacchino di S. Pietro a Roma, l'Annunciazione nel transetto sinistro e i medaglioni in stucco della Via Crucis nelle cappelle laterali, opera di Giovanni Battista Bernero, autore anche del gruppo in stucco rappresentante l'Assunzione della Madonna.
In sagrestia è di rilievo la Madonna in trono tra i Santi Benedetto, Benigno, Vittore e Tiburzio (nella predella la Vita di S. Tiburzio), opera di Defendente Ferrari.
All'esterno la possente e robusta torre campanaria quadrata in pietra verde-grigiastra, con fregi in argilla e a sei piani con monofore e bifore, è invece quella originale in stile romanico, resto della primitiva abbazia medievale.
Alla base del campanile si trova un'absidiola con un affresco molto antico e deperito, raffigurante una Madonna in trono con bambino, risalente all'inizio dell'XI secolo.
A destra della chiesa si trova l'attiguo e coevo palazzo abbaziale (ora Istituto Salesiano), dal bel cortile rettangolare a doppio porticato in cotto. Sia il palazzo abbaziale, sia il vicino palazzo comunale, sono opere settecentesche di Mario Ludovico Quarini.

L'interno del complesso abbaziale è visitabile su prenotazione, Tel. 0119880487 e 3384128795. Gli esterni sono sempre accessibili e visibili.

Per approfondimenti:
Notario Marco, Chianale Marco, San Benigno di Fruttuaria tra arte, storia, ambiente, Stige Editore, Torino, s.d. (ma 1990).