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Parco Nazionale della Val Grande



Atti del Convegno
  Convegno “Sport & Turismo…a spasso con l’Educazione Ambientale”

Turismo, Sport ed Educazione Ambientale

Innanzitutto devo dire grazie alla Presidente e amica Franca Olmi per questo invito che offre al Parco del Ticino un momento di visibilità ma anche la possibilità di riflettere su temi che sono, per la vita dei parchi e delle aree protette, fondamentali.

Sono tre temi quelli dello sport, del turismo, dell’educazione ambientale su cui bisognerebbe fermarsi a lungo, bisognerebbe riflettere e confrontarsi per trovare delle situazioni di omogenea cultura andando a pescare all’interno della cultura e della politica nazionale gli elementi che costituiscono le linee di orientamento ma, evidentemente, in questo momento non è possibile. Le riflessioni che io posso fare adesso possono soltanto assumere le caratteristiche del dato esperienziale.

Io sono pro-tempore il Presidente di un parco, il Parco del Ticino Piemontese, che ha una morfologia completamente diversa da quella del Parco Nazionale Val Grande e forse è un parco più lombardo perché la stupidità amministrativa – uso questa espressione forte perché non riesco a trovarne un’altra – divide ancora una zona che è naturalmente uniforme in due situazioni amministrative contrapposte, diversificate sulle stesse sponde di un fiume come il Ticino.

Il Parco del Ticino nella sua unità naturale dovrebbe essere uno dei parchi naturali più grandi d’Europa, forse il più grande; e allora qualche pezzo di storia, qualche pezzo di cammino potrà farmi – assumendo anche dei dati dal Parco Lombardo – proporre qualche riflessione su quanto un parco, una zona protetta e i suoi amministratori potrebbero e dovrebbero fare e su come noi abbiamo agito nella nostra realtà.

Per quanto riguarda per esempio il turismo io condivido in buona parte quanto ha detto Francesco Cetti Serbelloni, non tanto perché si autodefinisce una cassandra, ma perché questo è il dato esperienziale di tutti i giorni. In un parco fortissimamente antropizzato come quello nostro del Ticino viene a sfogarsi quel desiderio di verde, quel desiderio di natura da parte di centinaia di migliaia di persone che arrivano dalle città vicine – Varese, Milano, Novara, Pavia e altri grossi centri urbani – che per decisioni amministrative non hanno zone verdi.

Trattandosi essenzialmente di turismo pendolare vi lascio immaginare quali siano le condizioni delle nostre spiagge e dei nostri boschi: centinaia di migliaia di persone che invadono per un giusto e naturale desiderio e per una giusta e naturale necessità ma invadono l’ambiente! Oggi nessuno di noi pensa più che un parco o un’area protetta debbano essere santuari della natura, debbano essere porzioni di territori messi sotto una cappa e protetti dall’invasione dell’uomo, ma è evidente che se noi continuiamo in questo modo l’ambiente non solo non avrà più cappe ma non avrà più nessuna caratteristica di verde o di fruibilità per le necessità dell’uomo.

Quindi il concetto è che se da una parte le nostre amministrazioni debbano salvaguardare l’ambiente, dall’altro versante è obbligatorio che la fruizione dell’ambiente stesso da parte dell’uomo debba essere regolamentata. Personalmente metterei un parametro in più di quello che descriveva Francesco Cetti Serbelloni: io non ho vergogna a pensare e a dire pubblicamente che, quando occorre, ci vuole anche la repressione. Non è pensabile che l’autodeterminazione o il diritto a invadere e a fruire siano sinonimo di consumo: l’ambiente, bene naturale, è un bene non rinnovabile e quindi, una volta distrutto, una volta rovinato, non è più neanche ereditabile da parte delle generazioni future e questa è per noi una responsabilità gravissima. Come amministratori dovremmo avere, dobbiamo avere almeno il compito di lasciare quanto abbiamo ereditato se non in condizioni migliori almeno in condizioni di uguale valore rispetto a quanto abbiamo ricevuto.

Allora che cosa fa un parco? Cerca di regolamentare oltre che proteggere l’ambiente, regolamentare la fruizione dandole degli orientamenti; è evidente che se lo sport può essere praticato in tutti gli ambienti del parco, ecco non ci sarà più salvezza per il parco stesso. Non riesco a immaginare come il Parco Nazionale Val Grande – come è stato per il Parco del Ticino – possa svolgere una politica per cui l’accesso sia comunque libero per ogni e qualsiasi disciplina, per ogni e qualsiasi attività sportiva come per qualsiasi attività di turismo. Allora se è evidente che sport e turismo devono essere parametri di sostegno che concorrano, per quanto riguarda l’amministrazione del parco, ad una parte di autofinanziamento è altrettanto evidente che oggi noi non siamo ancora attrezzati per riuscire ad autofinanziarci; ma queste indicazioni e questi orientamenti dovranno portare diffusamente i parchi a consistenti percentuali di autofinanziamento. Per fare ciò è necessario che si faccia investimento orientato, investimento compatibile.

Questo è il primo concetto fondamentale: possibilità di autofinanziamento, protezione dell’ambiente, ma anche regolamentazione per dare la possibilità ai fruitori di godere di un bene naturale.

Un secondo concetto è il seguente: se considero l’ambiente come un capitale, allora devo pensare a come farlo rendere. Con questo non dico che le aree naturali possano portare delle soluzioni ai problemi del lavoro in modo definitivo, assoluto: noi abbiamo fatto un’esperienza, compiuto un percorso per testare se la potenzialità dell’ambiente può essere alternativa al tradizionale modo di concepire il lavoro e abbiamo verificato che questo non è vero. Però sappiamo che cominciando a lavorare in questa direzione non le migliaia – almeno per quanto riguarda le nostre dimensioni ambientali – ma perlomeno le centinaia di posti di lavoro sono possibili.

Noi allora abbiamo provato, sfruttando anche la legislazione piemontese, a creare delle figure professionali nuove come gli operatori naturalistici, persone che guidano i gruppi sul territorio, e abbiamo formato qualche centinaio di persone con i nostri corsi. E l’evoluzione naturale quale è stata? Quella che soprattutto giovani hanno creato cooperative di servizi le quali non danno uno stipendio pieno agli operatori ma favoriscono una cosa meravigliosa, l’imprenditorialità. In alcuni casi la nascita di queste cooperative è dovuta al fatto che dei giovani, per disperazione, sono diventati imprenditori perché l’economia del luogo non permetteva loro di valorizzare le proprie capacità e concretizzare le proprie aspirazioni. Noi abbiamo la fortuna di non avere una imprenditorialità da disperazione, abbiamo la possibilità di verificare laddove queste cose sono state già realizzate, sono produttive e alternative al modo tradizionale di intendere il lavoro.

E’ evidente che un problema come quello della Sisma non può essere risolto da queste cose ma qualche piccolo contributo, se gli amministratori mettono in atto politiche di questo tipo, lo possono dare; senza creare illusioni, seminando, investendo, facendo delle scelte che portino a questi obiettivi. Considerare l’ambiente come un valore che deve essere quindi produttore non soltanto di investimenti e di attenzioni, ma anche di ritorni.

Noi abbiamo avuto dei risultati sorprendenti con i progetti programmati in via sperimentale nell’ambito dell’agricoltura, con una risposta entusiasta da parte degli operatori del settore. Abbiamo fatto qualche indagine di mercato: in questo ambito c’è un mercato potenzialmente incredibile! In Italia vengono spesi 200.000 miliardi all’anno per il cibo e il consumatore medio italiano è disposto a pagare il 30% in più di valore aggiunto per i prodotti ecologici. Fate voi delle stime di macro economia: il valore aggiunto porta soldi, porta investimenti, attività alternative e la possibilità di alleviare la crisi che anche nel settore agricolo pervade le aziende esistenti sul nostro territorio.

Noi cominceremo a fare dei mercatini, mostreremo e venderemo alla gente questi prodotti, illustreremo su quali protocolli sono stati coltivati questi prodotti: il ruolo del parco è quello di essere il garante, il pubblicista, il mezzo che funge da tramite nella realizzazione e nel sostegno di tutto ciò.

Parco come volano, parco come situazione estremamente fortunata perché – in quanto zona protetta – è più facile fare sperimentazione e creare modelli positivi da esportare: dal piccolo si può pensare al macro.

Ultimo argomento, l’educazione ambientale: io per caso sono anche un operatore di scuola e credo che parlare di educazione ambientale sia un falso; infatti se penso che una persona debba essere formata attraverso tante educazioni credo di commettere un imperdonabile errore di metodo. Non è pensabile che il rispetto dell’ambiente aumenti se a scuola si fa educazione ambientale. Che cosa significa? Che do delle informazioni, do serie di norme, prescrivo un decalogo, che faccio esperienze sul campo? Io credo che non si possa più parlare di una serie infinita di educazioni: quando si parla di formazione del cittadino si deve parlare di educazione e basta! E’ un errore di metodo pensare che l’educazione ambientale, la somministrazione di informazioni, le esperienze sul campo eccetera, possano risolvere da sole i problemi legati alla formazione.
Questo non tanto per la mia personale esperienza ma perché in anni non molto lontani abbiamo provato, in collaborazione con la Provincia di Novara e con l’Università di Parma, a compiere delle indagini per capire se lo sforzo delle amministrazioni dei parchi nei confronti dell’educazione ambientale producesse delle maturazioni, delle convinzioni e quindi delle trasformazioni comportamentali stabilmente acquisite: è stata una sorpresa incredibile rilevare da decine di migliaia di questionari distribuiti che si otteneva addirittura il riscontro inverso! Cresceva il livello di conoscenza e di sensibilità ambientale man mano che ci si allontanava dai centri operativi degli ambienti protetti.

Allora l’equazione è questa, a nostro modo di vedere: non si deve fare educazione ambientale ma informazione corretta. Secondo noi è troppo facile legare l’educazione ambientale al dato emozionale: siamo diventati tutti ambientalisti quando è avvenuto il disastro di Chernobyl ma non credo che l’educazione ambientale debba derivare da situazioni del genere, dalla sollecitazione emotiva. Credo invece che debba essere un comportamento connaturato. Allora non può più essere gestito dai parchi e dalla scuola. Lo studio della relazione segnala che deve esserci un policentrismo prospettico nei confronti delle formazioni, ci deve essere una globalità di atteggiamenti a livello nazionale o, meglio, planetario altrimenti questi sono parziali, piccoli, ripetuti fallimenti che si trasformano in sprechi di energia.

Forse c’è bisogno di un ribaltamento della prospettiva in termini di prudenza, di serietà, di consequenzialità e di sfruttamento delle esperienze dei lavori precedenti. Che cosa possono fare i parchi? Non credo possano risolvere questa situazione, ma in ogni caso hanno una responsabilità precisa. Dal loro osservatorio privilegiato – perché sono in circuiti protetti – possono essere volano di queste informazioni, possono segnalare alla sensibilità degli amministratori superiori che questa è la direzione da prendere. Non perché lo vogliono gli amministratori dei parchi ma perché non esiste altra alternativa, pena domani di non avere più né parchi né ambiente. Non avendo più ambiente non si avrà più nessun problema risolvibile….
Mi fermo qui e vi ringrazio per l’attenzione.

Pietro Mocchetto - Presidente del Parco della Valle del Ticino Piemontese